Nella sua brillante rubrica sul Giornale, Luigi Mascheroni, due giorni fa, ha riportato tre recenti dichiarazioni, assai simili. Anzitutto quella di Lilly Gruber: “mi sento poco bene a parlare di patria e di nazione”. Poi quella di Alessandro Milan: “La parola Patria mi provoca un brivido lungo la schiena”. Infine quella di Lella Costa: “Scusate, ma io non riesco a dire la parola nazione o patria”.

Ma perché? Sono parole da aborrire? Perché le usa Giorgia Meloni? Perché sarebbero “fasciste”? Evidentemente costoro – come molti che si ritengono antifascisti – ignorano che proprio tali parole risuonarono spesso sulle labbra (e nel cuore) dei partigiani condannati a morte prima della fucilazione (non a caso la Resistenza al nazifascismo si considerò il compimento del Risorgimento).

Basta consultare quel classico della nostra storia che è il volume “Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana” (Einaudi). Già nella prima lettera – di Antonio Fossati – si legge: “Carissima Anna, eccomi a te con questo mio ultimo scritto prima di partire per la mia condanna. Io muoio contento d’aver fatto il mio dovere di Vero Patriota. Mia cara sii forte che dal cielo pregherò per te. (…) Nel tuo cuore non ci deve essere dolore ma l’orgoglio di un Patriota e anche ti prego di tenere per ricordo il mio nastrino tricolore che lo portai sempre sul cuore per dimostrarmi un vero Patriota”.

Molto bella è anche la lettera di Giancarlo Puecher Passavalli: “Muoio per la mia Patria. Ho sempre fatto il mio dovere di cittadino e di soldato. Spero che il mio esempio serva ai miei fratelli e compagni. (…) Viva l’Italia. Raggiungo con cristiana rassegnazione la mia Mamma che santamente mi educò (…). L’amavo troppo la mia Patria; non la tradite, e voi tutti giovani d’Italia seguite la mia via e avrete il compenso della vostra lotta ardua nel ricostruire una nuova unità nazionale. Perdono a coloro che mi giustiziano perché non sanno quello che fanno e non sanno che l’uccidersi tra fratelli non produrrà mai la concordia”.

Lorenzo Viale scrive ai genitori: “Una cosa sola ci sia di conforto: che ho agito sempre onestamente secondo i santi principi che mi avete inculcato sin da bambino, che ho combattuto lealmente per un ideale che ritengo sarà sempre per voi motivo di orgoglio, la grandezza d’Italia, la mia Patria: che non ho mai ucciso, né fatto uccidere alcuno: che le mie mani sono nette di sangue, di furti e di rapine. Per un ideale ho lottato e per un ideale muoio. Perdonate se ho anteposto la Patria a voi, ma sono certo che saprete sopportare con coraggio e con fierezza questo colpo assai duro (…). Ordunque, non addio, ma arrivederci in un mondo migliore dove le bassezze umane non ci toccheranno piú”.

Come si vede non solo la Patria viene evocata spesso in queste lettere, ma anche Dio e la famiglia, con buona pace di chi oggi inorridisce davanti a questi termini. E non si tratta di una mia selezione soggettiva. Si può consultare su internet una selezione delle stesse lettere fatta dalla Cgil (che fra l’altro inizia con quella di Puecher).

Antonio Brancati scrive ai genitori: “Sono stato condannato a morte per non essermi associato a coloro che vogliono distruggere completamente l’Italia. Vi giuro di non aver commessa nessuna colpa se non quella di aver voluto più bene di costoro all’Italia, nostra amabile e martoriata Patria (…). Pregate per me il buon Dio (…) ci rivedremo lassù, in un luogo più bello, più giusto e più santo”.

Anche Albino Abico, partigiano comunista, fa la sua dichiarazione d’amore all’Italia: “Mi sento calmo e muoio sereno e con l’animo tranquillo. Contento di morire per la nostra causa: il comunismo e per la nostra cara e bella Italia”. Achille Barilatti scrive: “Non piangere Mamma, il mio sangue non si verserà invano e l’Italia sarà di nuovo grande. Addio Mamma, addio Papà, muoio per l’Italia. Ricordatevi della donna che tanto ho amata. Ci rivedremo nella gloria celeste. Viva l’Italia libera!Irma Marchiani confida: “Ho sentito il richiamo della Patria per la quale ho combattuto, ora sono qui… muoio sicura di aver fatto quanto mi era possibile affinché la libertà trionfasse”.

Ugo Machieraldo scrive: “Mia cara Mary, (…) il tribunale militare tedesco di Cuorgnè mi ha condannato a morte (…). Sono perfettamente sereno nell’adempiere il mio dovere verso la Patria, che ho sempre servito da soldato senza macchia e senza paura, sino in fondo. So che è col sangue che si fa grande il paese nel quale si è nati, si è vissuti e si è combattuto. Come soldato io sono sempre stato pronto”. Giordano Cavestro ricorda “gli altri tre gloriosi compagni caduti per la salvezza e la gloria d’Italia. Se vivrete, tocca a voi rifare questa povera Italiache è così bella, che ha un sole così caldo, le mamme così buone e le ragazze così care”.

Mascheroni ha notato, nel suo corsivo, che la nostra “Costituzione più bella del mondo” riporta solennemente più volte le parole Patria e Nazione (o nazionale): ciò dimostra che non sono da aborrire, ma sono i nostri valori fondanti. I pensosi editorialisti di Repubblica che a “patria” e “nazione” contrappongono il “patriottismo costituzionale” sono confutati dalla stessa Costituzione che si richiama proprio a quei valori i quali la precedono di secoli.

I padri costituenti, celebrandoli solennemente nella Carta, volevano affermare che la patria, l’identità italiana e i loro valori non nascevano certo il 1° gennaio 1948, con l’entrata in vigore del testo costituzionale, ma che esso intendeva esaltarli e difenderli.

Antonio Socci

Da “Libero”, 29 settembre 2024