CAPODANNO DI SETTEMBRE. L’ATTESA DELLA VITA E I PROBLEMI DELLA POLITICA D’AUTUNNO
“Ultimo controesodo” dei vacanzieri, annunciavano ieri i tiggì. In pratica l’estate sta finendo: l’estate che sui media è stata la più calda degli ultimi millenni e nella realtà è stata piovosa e anche fresca, con buona pace dei catastrofisti climatici.
Pure la temperatura della politica è stata arroventata solo sui media (che hanno alimentato polemiche di tutti i tipi), ma normale nella realtà del Paese: i militanti Pd che la Schlein aveva chiamato a una grande mobilitazione estiva, impegnati con le creme solari, non si sono visti.
Ormai settembre – inizio dell’anno scolastico – è diventato un secondo capodanno che induce a fare bilanci e programmi. Bilanci esistenziali nella vita personale e bilanci politici nella vita pubblica.
I primi ci mettono con le spalle al muro perché fanno emergere la malinconia del tempo che passa e portano alla luce la nostra fragilità di esseri mortali, sempre inquieti, irrisolti, in ricerca, sempre in attesa di una felicità che ci sorprenda e sempre delusi e inappagati.
“Basta che non ci debba mai mancare qualcosa da aspettare” cantava Enzo Jannacci, forse ricordando il leopardiano venditore di almanacchi. Cesare Pavese si chiedeva: “qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?.
Ma è la nostra natura che è fatta di attesa. L’attesa di qualcosa, così grande e assoluto che in genere non si vuol guardare nella sua natura (metafisica) e si proietta sui rapporti umani, sul lavoro o sulla politica. Da cui però non ci si può aspettare il Paradiso sulla terra (il comunismo che lo ha promesso ha ingannato tutti e ha costruito l’Inferno).
Il mondo umano è il regno dell’imperfezione, del compromesso, della costruzione faticosa e paziente. Non capirlo espone alla delusione, alla recriminazione, alla rabbia irrazionale.
Molti anni fa un celebre giornalista teneva su “Epoca” una rubrica di dialogo con i lettori. Un giorno gli scrisse un signore che gli raccontò tutta la sua vita, gli errori, le delusioni, le sofferenze, le malattie, la perdita della fede e la paura della morte: “sono rimasto in definitiva spoglio e inerme” concludeva “ed è per ciò che mi rivolgo a lei. Ammiro la sua serenità che traspare da tutti i suoi scritti. Se vuole mi aiuti”.
Il giornalista gli rispose chiedendogli a cosa mai poteva servirgli una sua lettera: “io non scrivo che di politica… Bisognerebbe che io a lei parlassi di altre cose e io non scrivo mai di quelle cose, anzi, non ci penso. Ed è appunto per non pensarci che scrivo di politica e di faccende di cui in fondo non mi importa niente, così riesco a dimenticare me stesso e la mia miseria”.
C’è molta verità in questa brusca sincerità. Molte delle cose di cui si parla servono a dimenticare le domande della vita e i problemi. Un po’ come il tifo calcistico. Tante questioni politiche su cui ci si azzuffa, sono un anestetico o un diversivo: la distrazione di Pascal.
D’altra parte ideologie come il marxismo insegnano a non prendere in considerazioni quelle domande. Ma proprio perché quell’ansia di significato e di assoluto non si può sradicare dalla nostra natura, finisce per riemergere come eccesso e come rabbia – senza essere riconosciuta – nelle cose che facciamo e anche nel discorso pubblico e nelle discussioni politiche.
Gran parte delle contrapposizioni politiche che vediamo oggi, delle esasperazioni, dei furori, dei fanatismi, dei settarismi che incendiano il dibattito pubblico – soprattutto per chi proviene da un messianismo ateo e totalitario come il marxismo – hanno alla radice una censura sulla nostra situazione esistenziale.
Se riconoscessimo la nostra comune condizione umana, l’imperfezione di tutte cose terrene e i problemi (complessi) del Paese di cui condividiamo la responsabilità, saremmo indotti a essere più solidali, a unirci in uno sforzo fraterno per affrontarli: la “social catena” di cui parlava Leopardi nella “Ginestra”.
Certo, per fare così bisogna avere a cuore più la sorte generale, che la propria parte, più la nazione che la fazione. Ma non lo si vuol capire.
I primi segnali della nuova stagione politica non sono incoraggianti. Settembre inizia già con Pier Luigi Bersani che accusa “questa destra” di “portare su la robaccia che c’è nel fondo del Paese”. Se questi sono i toni c’è poco da sperare.
Perfino il gesto della premier, a ferragosto, di iniziare un dialogo con le opposizioni sul “reddito minimo” è stato accolto male (del resto l’hanno criticata pure per aver saldato, di tasca sua, il conto al ristorante dei turisti italiani in Albania).
Sia chiaro, è giusto che l’opposizione faccia l’opposizione, ma magari ricordare che tutti i problemi su cui oggi bombarda il governo arrivano dal decennio in cui hanno governato loro, potrebbe indurli a essere ragionevoli e costruttivi (se non autocritici).
Così, per esempio, eviterebbero le rivendicazioni demagogiche senza spiegare dove si trovano i soldi e perché non hanno fatto loro quei provvedimenti. E potrebbero dare una mano alla Meloni per difendere i nostri interessi in Europa perché lì sta il problema.
Ripetiamolo: è normale fare opposizione al governo, ma non fare opposizione al Paese.
Antonio Socci
Da “Libero”, 3 settembre 2023