Le scritte apparse a Genova contro il vescovo, attuale presidente della Cei (“Bagnasco a morte”, “Bagnasco attento, ancora fischia il vento”) corredate da falce e martello, stella delle Br e “P38”, sembrano sottovalutate o snobbate. Haidi Giuliani, senatrice di Rifondazione comunista (e madre di Carlo Giuliani) ha dichiarato che sono “scritte stupide”, ma “non è da darci tutta questa rilevanza, anche perché can che abbaia non morde”.
Forse la senatrice Giuliani ha dimenticato che in Italia, nel recente passato, alcuni che abbaiavano minacce poi hanno anche morso. E ferocemente. Parlo dell’estremismo rosso degli anni Settanta che – senza essere stato fermato al tempo dei proclami – diventò terrorismo politico ferendo gravemente la nostra democrazia.

Il Capo del governo, il presidente della Camera Bertinotti – di solito prodigo di dichiarazioni – insieme con Diliberto e gli altri leader, non avrebbero potuto esprimere pubblicamente la loro solidarietà a monsignor Bagnasco? E non avrebbero dovuto invitare a isolare e condannare i facinorosi che si esprimono con quelle minacce?
I politici che hanno manifestato solidarietà al presidente dei vescovi italiani si contano sulle dita di una mano. Stupiscono soprattutto i silenzi fra i politici cattolici (che si sarebbero dovuti sentire più di tutti). Sorprende meno il silenzio di quanti – per dirla con “Avvenire” – non perdono occasione per strillare che “la Chiesa è prepotente e loro sono democratici”.

Le minacce a Bagnasco peraltro si aggiungono a scritte blasfeme e a manifesti apparsi sempre a Genova dove si vede (in fotomontaggio) il papa davanti al plotone di esecuzione. Tutti segnali di intolleranza. Non è in atto una pericolosa minimizzazione? Ieri “Avvenire” non ha drammatizzato, tuttavia in un editoriale ha ammonito che “il salto fra la microcriminalità politica e l’avventurismo di indole terroristica è più probabile se il brodo di coltura è abbondante e caldo al punto giusto. Se gli obiettivi più sensibili sono abitualmente lasciati soli, rispetto allo scherno pubblico e alla maldicenza generalizzata”.
E’ per questo che sarebbe preziosa la pubblica condanna di quelle minacce e la solidarietà sincera col presule da parte di tutti i leader politici. E’ sensato condividere la conclusione dell’editoriale del Foglio: “La scelta compiuta da settori estremisti di mettere nel mirino (c’è da sperare solo metaforico) i vescovi e il fatto che l’Italia sia ormai l’unico paese europeo in cui gli ecclesiastici si muovono sotto scorta, descrivono una situazione densa di pericoli sui quali la politica è chiamata a riflettere”.

E’ un’analisi giustamente allarmata. Ma c’è da aggiungere che per capire il presente e il futuro possibile bisogna ricordare il passato. Specie se rimosso. Anche il Foglio lo dimentica evidentemente se – nello stesso editoriale – si legge che “il movimento operaio italiano ha sempre considerato la pace religiosa come un obiettivo da perseguire ed è per questo che vedere i suoi simboli tradizionali, la falce e il martello, sotto scritte minatorie nei confronti di un prelato tanto rappresentativo non può essere considerata una ‘normale’ espressione di estremismo”.
Su questo dissentiamo. C’è – questo sì – la storia dell’articolo 7 della Costituzione che Togliatti fece votare, ma, fuori dal Palazzo, nell’Italia reale c’è anche la storia censurata, di una immensa carneficina del clero italiano, perpetrata da fanatici che inalberavano il simbolo della “falce e martello”. Altro che don Camillo e Peppone (racconto simpatico, ma lontano anni luce dalla realtà).

Don Mino Martelli, prete imolese, fu uno dei primi a rompere coraggiosamente l’omertà storiografica con un paio di volumi sulle violenze rosse contro i preti: “I partigiani comunisti” scrisse nel 1982 “spedirono in Paradiso con un bel rosario di piombo durante e dopo la guerra, presumibilmente 110 sacerdoti, l’ultimo dei quali nel 1951… A quanto mi consta né i partigiani democristiani (80 mila in Italia), né i repubblicani, né i socialisti, né i liberali, hanno continuato a sparare dopo la guerra. Solo i comunisti – non tutti per fortuna – hanno abbondantemente e impunemente ucciso anche nel dopoguerra e fino al 1951”.

Ma per cinquant’anni il silenzio ha avvolto il più grave martirio del clero italiano in duemila anni di storia della Chiesa in Italia (a cui si aggiungono anche i tanti preti massacrati dai nazifascisti durante la guerra). Gli storiografi cattolico-democratici, che hanno avuto in mano le cattedre universitarie e hanno scritto centinaia libri e articoli, e sottoscritto tanti appelli progressisti di critica alla Chiesa (anche recenti), sembra non abbiano mai trovato il tempo per alzare i veli su questa immane tragedia. E’ curioso che il Paese che si dedica da decenni alla commemorazione delle stragi (a cui sono state intestate vie, convegni e perfino delle commissioni parlamentari), non si sia mai voluto accorgere della strage dei preti italiani. Qualche faro si è acceso e qualche riconoscimento di eroismo è arrivato solo per i preti che hanno avuto la ventura di essere massacrati dai nazisti. Ma di solito se n’è fatta occasione di propaganda. E’ il caso del martirio di don Giovanni Fornasini, ucciso dai tedeschi a Marzabotto. A lui – protestò l’Osservatore romano – “forse per errore o albagia propagandistica fu concessa la Medaglia d’oro al merito partigiano. Uno scherzo della storia!” polemizzò il giornale vaticano. “Egli fu soltanto ‘partigiano’ di Dio, ucciso perché lottava per la salvezza delle anime, detestava la violenza, ligio solo alle verità evangeliche, protettore degli innocenti, condannando partigiani e soldati per lo scempio delle popolazioni inermi”.
Come gli altri parroci uccisi. Don Giuseppe Jemmi per esempio aveva anche eroicamente aiutato la Resistenza e fu pure arrestato dai tedeschi. Poi però fece sentire la sua voce di pastore contro gli omicidi dei partigiani: “Fratelli, sta scritto: non ammazzare! Non macchiatevi le mani di sangue. Non ascoltate la tentazione della vendetta. Non siate i figli di Caino…”. Così fu ammazzato lui stesso il 19 aprile 1945 e la sua splendida figura è rimasta sconosciuta. Come quelle di tanti altri preti martiri.

Si è dovuto aspettare Giampaolo Pansa che nel 2003 – grazie all’autorevolezza del suo nome, al di sopra di ogni sospetto ideologico – ha raccontato, insieme al “sangue dei vinti”, anche il martirio di alcuni sacerdoti nel dopoguerra, quando – scrive – “stava cominciando un’altra guerra civile e a tutto campo: partigiani comunisti contro preti, padroni e democristiani”. Il sentimento diffuso all’estrema sinistra era che “bisognava prepararsi alla famosa ora X”, il “grande cambio”, la presa del potere come nei paesi dell’Est, e, scrive Pansa, “il vero drammatico problema era che nel partito di Togliatti, di Longo, di Secchia, di Amendola, di Pajetta, l’intero gruppo dirigente, compresi i capi locali, non facesse quasi nulla per stroncare alla radice questa convinzione”. Sulla scia di Pansa – che ha valorizzato il lavoro di solitari storiografi locali o parroci che hanno sfidato il tabù e l’ostilità ideologica – è uscito il libro “Storia dei preti uccisi dai partigiani” di Roberto Beretta, che tenta di raccontare tutte queste drammatiche vicende.

Con una storia così alle nostre spalle, oggi si deve leggere (lo apprendo da Avvenire) che “Liberazione”, giornale di Rifondazione comunista, “paragona il clero al Ku Klux Klan”. Così la Chiesa italiana, invece del riconoscimento del suo martirio, si prende ancora insulti. Non sarebbe il caso di riflettere a Sinistra?

Fonte: © libero – 11 aprile 2007

Print Friendly, PDF & Email