Alluvioni e disastri materiali (due in dieci giorni) si sommano a alluvioni e disastri economici e finanziari e tutti insieme, proprio nelle stesse ore, sconvolgono questa povera Italia, “nave senza nocchiero in gran tempesta”, facendo dilagare insicurezza, angoscia, paura del futuro, smarrimento.

Possibile che proprio nel 150° anniversario della costruzione dello stato unitario degli italiani si debba rischiare il baratro quando tutti sanno, nel mondo, che la nostra è un’economia forte? I disastri naturali arrivano esattamente nei giorni più cupi ad alimentare smarrimento e depressione.

Fra i flutti minacciosi del mare in tempesta, tutti cerchiamo la stella polare per ritrovare la rotta e tutti guardiamo al timone, che sembra abbandonato a se stesso. Ma soprattutto tutti ci chiediamo cosa ognuno di noi possa fare, perché di certo ognuno di noi può fare qualcosa, anche senza rimetterci un euro.

Questa, fra l’altro, è la felice intuizione del signor Giuliano Melani che ha invitato tutti gli italiani a comprare, lunedì prossimo, i titoli pubblici dello Stato (il risparmio degli italiani è fra i più alti nel mondo).

Una strada semplice e facile, ma geniale (e pure conveniente) per una prima uscita dal rischio fallimento. E’ noto infatti che il Giappone è enormemente più indebitato di noi: lì il rapporto debito/pil è addirittura al 223 % e quello fra deficit e pil è al 7,50 %.

Ma il Giappone non incorre nelle punitive speculazioni del mercato e nelle umiliazioni di altre potenze proprio perché tutto il debito pubblico è allocato nelle mani dei risparmiatori giapponesi.

Dunque il “teorema Melani” dovrebbe farci aprire gli occhi. Più in generale dovremmo capire che impegnarsi (utilmente) invece che (inutilmente) indignarsi è il primo passo di una riscossa civile e di un soprassalto di dignità nazionale.

Anche perché è ben difficile confidare nei politici e nelle élite (considerata pure la disastrosa prova che stanno dando oggi, come nel passato).

Costoro dovranno cambiare radicalmente per riguadagnarsi la nostra fiducia. Ma anche noi dovremo cambiare.

La “malattia” italiana attuale è anzitutto una malattia spirituale e morale, perché il Paese ha tutte le risorse materiali per tappare le falle apertesi nella nave e riprendere la navigazione.

Occorrono qualità umane (disinteresse, dedizione al bene comune, sapienza, dignità, senso di responsabilità, spirito di sacrificio, onestà e solidarietà) più ancora che risorse finanziarie.

Lo ha sottolineato ieri lo stesso presidente della Repubblica quando ha detto che per uscire dalla crisi bisogna “ritrovare la strada della coesione sociale e nazionale”.

Ha aggiunto: “Bisognerà cambiare molte cose nel modo di governare, produrre e lavorare, vivere e comportarsi di tutti noi”, “indispensabile sarà lo spirito di sacrificio e lo slancio innovativo, affrontando anche decisioni dolorose che potranno apparire impopolari”.

Napolitano ha concluso: “L’Italia non può trovare la sua strada in un clima di guerra politica. È indispensabile riavviare il dialogo tra campi politici contrapposti”.

Quello che serve è una rinascita spirituale e morale, perché le risorse economiche per far fronte ai problemi ce le abbiamo già. Ma allora a chi rivolgersi per ritrovare energie morali che possano far cambiare la mentalità di una classe dirigente e di un popolo? A chi guardare?

Anche la Chiesa è chiamata a dare il suo prezioso contributo per il suo millenario rapporto di maternità col nostro popolo. Ma qual è il primo contributo che i cattolici possono dare al bene comune?

C’è anzitutto la loro operosità (la si vede in atto anche a Genova in queste ore), c’è la carità, che sostiene tante situazioni di sofferenza e di bisogno. La loro è una presenza preziosa e indispensabile anche fra i giovani.

Ma il primo contributo dei cristiani al bene di tutti – ci ha spiegato il papa – è la fede, che si esprime anzitutto con la preghiera e che sta alla base anche della carità.

Il popolo cristiano lo sa. Vorrei dunque girare al cardinale Bagnasco, presidente della Cei, e a tutta la Chiesa italiana, l’appello che mi è stato rivolto da tanti lettori che mi hanno scritto, perché venga indetta in tutte le chiese del paese una grande giornata di preghiera per l’Italia.

Magari con qualche gesto solenne alla santa casa di Loreto (perché l’Italia è la seconda patria della Regina del Cielo) e presso i nostri santi protettori, ad Assisi, alla tomba di san Francesco, e a Santa Maria sopra Minerva, a Roma, dove è sepolta santa Caterina.

So che ad alcuni sembrerà illusorio l’appello alla preghiera, ma il problema è che sembrerà fuori luogo anche a tanti ecclesiastici e a tanti “cattolici impegnati”, i quali credono che il contributo che i credenti possono dare al bene comune sia anzitutto un discorsetto sociologico (o magari qualche convegno che permetta a certuni di mettersi in luce per prenotarsi poltrone o ricollocarsi per salvare posizioni di potere).

Invece il vero e più prezioso tesoro che i cristiani portano al bene comune è anzitutto la preghiera e la conversione. Perché la benedizione di Dio – come disse il Papa quando esplose la crisi finanziaria negli Stati Uniti e crollarono imperi finanziari – è l’unica certezza che non viene meno, che non tradisce, che protegge, che illumina e porta pace e bene per tutti.

L’antico popolo d’Israele vinceva le sue battaglie contro i nemici quando Mosè teneva le mani alzate in preghiera. Così anche la Chiesa sa, da sempre, che la preghiera è una forza potentissima. Basti dire che Benedetto XVI – sulla scia di Giovanni Paolo II – nei giorni scorsi ha di nuovo messo in relazione il crollo incruento delle dittature comuniste del 1989 con la preghiera dei cristiani e dei martiri.

E la Madonna – a Fatima e a Medjugorije – ha ripetuto che la preghiera ha perfino il potere di fermare o allontanare le guerre (anche se certe élite cattoliche sembrano ignorarlo).

Infatti nel Motu proprio con cui indice l’ “Anno della fede”, Benedetto XVI scrive: “Capita non di rado che i cristiani si diano maggior preoccupazione per le conseguenze sociali, culturali e politiche del loro impegno, continuando a pensare alla fede come un presupposto ovvio del vivere comune”.

Mentre “questo presupposto non è più tale”. Se qualche cattolico non crede nell’immensa forza della preghiera la fede manca anzitutto a lui.

Chi aveva molto chiaro tutto questo era un uomo, don Luigi Giussani, che pure aveva insegnato a una generazione di cattolici a impegnarsi negli ambiti sociali, culturali, civili e politici.

Quindici anni fa, nel 1996, quando l’Italia attraversò un’altra crisi – ma molto meno grave di quella attuale – don Giussani lanciò, come iniziativa pubblica, proprio un gesto di preghiera alla Madonna di Loreto e ai Santi Patroni per la salvezza del nostro Paese.

Si spiegò con queste parole in un’intervista alla Stampa:

“la situazione è grave per lo smarrimento totale di un punto di riferimento naturale oggettivo per la coscienza del popolo, per cui il popolo stesso venga spinto a ricercare le cause reali del malessere e a salvarsi così dagli idoli. Questo smarrimento comporta una inevitabile, se non progettata, distruzione dello stato di benessere, che risulta così totalmente minato nella tranquillità del suo farsi. Perché riprendere, bisogna pur riprendere!”.

Sembrano parole pronunciate oggi. Nei grandi cristiani il realismo fa a braccetto con il totale affidamento a Dio (non con le chiacchiere sociologiche).

Del resto nella storia delle nostre città e del nostro popolo, per secoli, l’incombere delle avversità (epidemie, guerre, terremoti, alluvioni, carestie) ha sempre indotto la nostra gente a raccogliersi nelle chiese e affidarsi alla Madonna e ai santi della nostra terra.

E gli innumerevoli santuari e le tante immagini votive ricordano quante volte il popolo è stato soccorso, quante volte sono state scongiurate tragedie e quante volte sono stati illuminati coloro che potevano determinare il bene o il male di tutti.

Antonio Socci

Libero, 6 novembre 2011

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