“Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie… Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna”.

Queste parole del Manifesto del futurismo di Filippo Tommaso Marinetti (pubblicato dal “Figaro” del 20 febbraio 1909) descrivono l’atmosfera in cui, di lì a poco, scoppierà la Prima Guerra mondiale, “l’inutile strage” che scatenerà tutti gli incubi totalitari nel mondo e che sarà la prima delle guerre moderne (guerre di sterminio per il dominio della tecnologia).

La retorica futurista della guerra, la guerra esaltata a parole, sarà tragicamente demolita dalla guerra vera che divorerà migliaia di giovani vite. In quell’abisso sprofonderà il Novecento e da lì nascerà anche un’altra letteratura.

IL RIFIUTO

L’americano Ernest Hemingway, che si era arruolato  come volontario a 18 anni per venire a combattere in Europa, scrisse “Addio alle armi” nel 1929. Il romanzo uscì il giorno del crollo della Borsa di Wall Street e fu inserito nell’elenco dei libri “contrari allo spirito tedesco” che furono bruciati dai nazisti a Berlino il 10 maggio 1933.

Nella prefazione del 1948 (riportata nell’edizione Oscar Mondadori), Hemingway – che otterrà il Nobel per la letteratura nel 1954 – scriverà parole durissime: “è chiaro perché uno scrittore dovrebbe interessarsi al continuo, prepotente, mortifero e sciatto crimine della Guerra. Avendo io stesso partecipato a troppe guerre nutro sicuramente dei pregiudizi e spero anzi di averne molti… A provocare, iniziare e far scoppiare le guerre sono le solite rivalità economiche e i porci che ne traggono profitto”.

Per capire lo sconvolgimento provocato dalla Prima Guerra mondiale è prezioso il libro di Stefan Zweig, “Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo” (Mondadori).

Zweig scrisse questa memoria autobiografica nel 1934, mentre si stava consolidando il regime nazista a causa del quale egli andò in esilio in Inghilterra. Ricostruendo il clima dell’impero asburgico scrive: “il tempo che precedette la prima guerra mondiale, fu l’età d’oro della sicurezza”.

Poi la catastrofe bellica che fece maturare in lui l’avversione totale per ogni guerra:

“Avevo ricevuto il giusto impulso: bisognava lottare contro la guerra!… Avevo riconosciuto l’avversario da combattere: il falso eroismo che preferisce mandare gli altri a soffrire e a morire, il facile ottimismo dei profeti incoscienti: politici o militari, che, promettendo senza scrupoli vittoria, prolungano il massacro ed hanno alle spalle il coro da loro pagato, tutti quei ‘parolai della guerra’ che Werfel ha messo alla gogna in una sua bella poesia. Chi manifestava un dubbio li disturbava nei loro affari patriottici; chi ammoniva era schernito come pessimista; chi combatteva la guerra di cui essi non dividevano i dolori, era marchiato traditore. Era sempre attraverso i tempi la stessa gentaglia, pronta a dichiarare vili i prudenti, deboli gli umani, per poi smarrirsi nell’ora della catastrofe imprudentemente provocata.”

BRANDELLI DI MURI

Dalle tragiche trincee della Prima guerra mondiale emerse anche la poesia di Giuseppe Ungaretti. E rileggere “San Martino del Carso” ha sempre una tragica attualità: “Di queste case/ non è rimasto/ che qualche/ brandello di muro// Di tanti/ che mi corrispondevano/ non m’è rimasto/ neppure tanto// Ma nel mio cuore/ nessuna croce manca// E’ il mio cuore/ il paese più straziato”.

 

 Antonio Socci

 

Da “Libero”, 1 aprile 2022