C’era una volta “la via italiana al socialismo”. Oggi c’è la via cinematografica al revisionismo. La formula “via italiana al socialismo” nacque con l’VIII Congresso nazionale del PCI, tenutosi nel dicembre 1956, subito dopo la rivolta d’Ungheria schiacciata nel sangue dai carri armati sovietici.

In realtà la linea che Togliatti dette a quel Congresso fu più sovietica che italiana. Infatti disse – e il Congresso confermò – che in Ungheria erano intervenute “forze controrivoluzionarie”, denunciò “l’azione perfida e violenta dei nemici di classe”, “l’azione disgregatrice e provocatoria degli imperialisti”, spiegò che c’era “la prospettiva della instaurazione di una sanguinosa tirannide fascista” e che quindi era stato “inevitabile, come una dura necessità l’intervento sovietico per sbarrare la strada al fascismo e alla guerra”. Perciò l’invasione fu “non soltanto un dovere di classe, ma un dovere verso tutte le forze della democrazia e della pace”.

Anche Giorgio Napolitano si allineò e attaccò Antonio Giolitti che aveva osato dissentire. Nella sua autobiografia del 2005 (poco prima di essere eletto al Quirinale), Napolitano se ne rammaricherà sostenendo che “mi mosse allora anche un certo zelo conformistico”, ma come attenuante aggiungeva che “ci animò la preoccupazione dell’unità del partito”.

Oggi Nanni Moretti, con il suo film “Il Sol dell’Avvenire”, inaugura la via cinematografica al revisionismo sull’Ungheria. In mancanza di politici e studiosi della sinistra disposti a ragionare rigorosamente sui fatti e sui documenti storici, il regista imbocca la scorciatoia di una malinconica favola felliniana: come sarebbe stato diverso se, in quel 1956, il Pci avesse preso le parti degli insorti per la libertà, contro i carri armati sovietici.

Apprezzabile. Ma il pensiero implicito è quello che i post-comunisti coltivano da decenni, ovvero l’idea che il Pci potesse farlo perché era una cosa del tutto diversa dal comunismo e dall’Urss.

Lo stesso messaggio del film, appena uscito anch’esso, di Walter Veltroni, “Quando”, dove Veltroni, già dirigente del Pci, sembra volerci dire che non solo lui non è mai stato davvero comunista, ma nemmeno il Pci, a ben vedere, lo era sul serio.

Tanto è vero che il protagonista del suo film, alla domanda “Ti dispiace che l’Urss non ci sia più?”, risponde: “Noi siamo sempre stati per lo strappo dall’Urss”.

La storia dice l’opposto. Non è che il Pci abbia fatto lo strappo dall’Urss e che ci si debba rammaricare solo per il ritardo. La realtà è che quello strappo il Pci non l’ha mai fatto, anzi è stata l’Urss – disfacendosi – che nel 1989 ha fatto lo strappo dal Pci.

Tanto è vero che Achille Occhetto, nella sua relazione da segretario al Congresso del Pci del marzo 1989, otto mesi prima del crollo del Muro di Berlino, rispose duramente a Craxi (che gli chiedeva di rinunciare al nome “comunista”), tuonando fra applausi scroscianti: “Non si comprende perché dovremmo cambiar nome. Il nostro è stato ed è un nome glorioso che va rispettato”.

Notato, fra parentesi, che Veltroni era allora un dirigente, componente del Comitato Centrale del Pci di Occhetto, bisogna dire che solo otto mesi dopo, a novembre, Occhetto capì perché doveva cambiar nome, infatti – mentre crollava il Muro di Berlino – corse ad annunciare la cancellazione del “nome glorioso”. Inaugurando una lunga serie di trasformismi del partito che perdura tuttora.

Ma nella questione ungherese riesumata da Nanni Moretti c’è un’altra idea, coltivata dalla sinistra post-comunista, secondo cui il Pci di Togliatti fu costretto dai suoi legami politici ad approvare, a malincuore, quell’invasione decisa dai sovietici e gli mancò il coraggio di rompere.

Sennonché oggi disponiamo di documenti che raccontano una storia diversa. Negli anni Novanta infatti Eltsin fece aprire gli archivi dell’ex Urss (con Putin si sono assai richiusi).

Gli storici Victor Zaslavsky ed Elena Aga Rossi riuscirono a lavorare su quei documenti e nel 1997 pubblicarono un libro straordinario, “Togliatti e Stalin (Il Pci e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca)”, edito dal Mulino.

Dalla nuova documentazione disponibile i due storici constatarono che Togliatti, il quale era un importante e influente dirigente comunista internazionale (era stato vicino a Stalin), veniva continuamente tenuto al corrente dalla dirigenza del Pcus degli eventi ungheresi con messaggi cifrati.

“La novità più sorprendete della nuova documentazione sull’atteggiamento della leadership sovietica” scrivono Zaslavsky e Aga-Rossi “è la decisione presa all’unanimità dal presidium del Comitato Centrale sovietico del 30 ottobre 1956 di evitare l’intervento militare in Ungheria e di adottare, nelle parole di Krusciov, ‘il corso pacifico, il corso del ritiro delle truppe e dei negoziati al posto del corso militare, il corso dell’occupazione’. Altrettanto sorprendente fu la decisione di Krusciov di riconvocare il giorno dopo, 31 ottobre 1956, un’altra riunione, in cui si decise di rivedere la scelta fatta e di ‘non ritirare le truppe dall’Ungheria e da Budapest’, ma al contrario di ‘prendere l’iniziativa di restaurare l’ordine in Ungheria’. Le ragioni di questo brusco rovesciamento non sono ancora chiare”.

Zaslavsky e Aga-Rossi spiegano: “è stata avanzata l’ipotesi che a modificare la decisione di astenersi dall’invasione contribuirono le prese di posizione di alcuni rappresentanti del blocco comunista a favore di un intervento. A questo proposito” sottolineano i due storici “rimane da approfondire il ruolo avuto da un telegramma di Togliatti inviato a Mosca proprio il 30 ottobre”.

Nel telegramma il leader del Pci definì quella ungherese “la rivolta controrivoluzionaria” e – sintetizzano gli storici – “sollecitò il governo sovietico a prendere una posizione chiara per evitare che assumessero una ‘direzione reazionaria’”.

Togliatti espose tutte le pesanti conseguenze che ci sarebbero state “per l’intero nostro movimento”. Così “il presidium rispose immediatamente” il 31 ottobre affermando “un pieno consenso con la valutazione di Togliatti dello ‘sviluppo reazionario’ della situazione ungherese” poi “lo si rassicurava che non vi era alcuna divisione all’interno della leadership”.

I due storici concludono: “Al culmine della crisi la reazione di Togliatti non fu quindi limitata al bicchiere in più bevuto per festeggiare l’ingresso delle truppe sovietiche a Budapest. All’interno dell’Unione Sovietica la lettera di Togliatti fu utilizzata dall’apparato di propaganda per giustificare l’intervento militare in Ungheria”.

Lo storico americano Mark Kramer ha scritto che, in base ai nuovi documenti emersi, “vi era una possibilità, anche se debole, che gli avvenimenti del 1989 potessero avere luogo 33 anni prima”. Cioè nel 1956. Togliatti lo temeva e fece di tutto per scongiurarlo.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 23 aprile 2023

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