Che vale all’uomo conquistare il mondo intero… se poi perde se stesso?

Mi impressionano la brama e la smania di Massimo D’Alema. C’è come una disperazione cupa in questa libidine di potere, in questo arrapamento senza politica e senza contenuti (perché al Quirinale non si va per un programma). Misto al timore degli “alleati” che ne temono la frustrazione, l’ira, la vendetta e perciò desiderano placarne la sete di potere (ma anche accoltellarlo). Sembra di stare su una scena di Shakespeare. O è un teatro dei pupi? Non che un uomo politico non debba avere ambizioni, non che sia illecito puntare al potere avendo delle idee per il proprio Paese. Ma non mi sembra questo il caso perché il Quirinale è solo potere formale. Ci si arriva per “non fare” politica, non per affermare le proprie idee. Ci si va per essere arbitro del gioco altrui e vi pare che Ronaldo, Maradona o Platinì possano ambire a fare gli arbirtri?

D’Alema si è sempre presentato come un centravanti della politica (e lo è), avrebbe potuto (e secondo me dovuto) candidarsi per Palazzo Chigi al posto di Prodi: ne aveva il diritto, del resto è il migliore della Sinistra. Si sarebbe proposto così al voto degli italiani dicendo cosa voleva fare, come voleva governare. E chiedendo al popolo sovrano di scegliere fra le idee sue e quelle di Berlusconi. Ma non l’ha fatto. Ancora una volta (come nel 1998, quando conquistò la premiership con un ribaltone di Palazzo, senza passare per il voto degli italiani) punta al potere per via indiretta. E soprattutto punta ad un potere che non ha contenuti politici. Al potere e basta. Quasi con la disperazione del naufrago.

Certo, lo fanno un po’ tutti. Come se il potere fosse il viagra dell’anima. I politici – non facendo esercizi spirituali – dovrebbero almeno leggere libri di storia. Prendiamo il più potente dei moderni: il Re Sole. Era arrogante. Era il potere. E gli altri – disse – che crepassero tutti: “dopo di me il diluvio”. Luigi XIV incarnava la Francia razionalista che aveva sostituito Dio con la Ragione umana, cioè che aveva sostituito Dio con lo Stato assoluto. Si sentiva un padreterno. Eppure un giorno schiattò pure lui e quando fu ridotto a una povera carcassa immobile, quattro ossa imbellettate e imparruccate alla mercé dei becchini, e fu portato per le esequie nella Cattedrale di Notre Dame, si fece un silenzio immenso sotto le volte gotiche. E fu allora, in quello sgomento universale, che il grande oratore Jean Baptiste Massillon tuonò: “Dieu seul est grand, mes frères!”. Dio solo è grande, fratelli miei. Tutti noi non siamo che polvere, un nulla. Comparse fugaci in un teatro di ombre, questa è la scena del mondo. Sul palcoscenico della storia ormai perfino Ramesses III è dimenticato: di tutto il suo potere, la sua fama, il suo dominio non restano che due sassi (resterà forse nei millenni il ricordo di Pecoraro Scanio? Chi ricorda i Pella e i Restivo della prima repubblica?).

Solo l’antica sapienza della Chiesa l’ha saputo ripetere per secoli davanti al neo eletto papa, bruciando un po’ di paglia con la formula, malinconica e solenne: “sic transit gloria mundi”. Memoria di Qualcuno che rifiutò ogni potere mondano e ci lanciò la domanda che ancora ci sgomenta: “che vale all’uomo conquistare il mondo intero, se poi perde se stesso?”. Che vale guadagnare imperi e dominii o anche ricchezze immense per qualche istante e poi sprofondare nel nulla per sempre?

Tommaso Moro – cancelliere del re, che preferì perdere la testa per il suo Dio anziché per il potere, e così guadagnò un regno che non finisce mai – andò all’esecuzione capitale decretata da Enrico VIII con il suo solito umorismo: “è già un pessimo affare perdere la propria anima per il mondo intero. Figuriamoci per la Cornovaglia…”. E’ quella frase di Cristo (che vale conquistare il mondo intero e poi perdere se stessi?) che ha affascinato i più grandi santi avventurieri, da Francesco Saverio – che per averla sentita dire a Ignazio di Loyola su una piazza si converte e conquisterà a Cristo immensi popoli d’Oriente – fino a Francesco d’Assisi che per questo rifiuta le ricchezze del padre, pula al vento, e si sente ricco dell’universo intero e dell’eternità. Proprio pochi giorni fa papa Ratzinger ha evocato “la povertà felice di Francesco”. Perché non è il potere che resterà per sempre, ma l’amore.

Già, l’anima, la felicità, l’amore, la vita vera. Sembrano favole. O cose da santi. Eppure anche uomini normali e fallaci sono talvolta capaci di autenticità. Su tante cose sono in disaccordo con Ciampi, dalla sua retorica risorgimentale al suo brutto inno nazionale, ma la sua rinuncia, quella capacità di distacco, quel passo indietro, colpiscono. Quel dire: “sono vecchio, lasciatemi andare…”, soprattutto quando i Ds gli han fatto capire che bramavano quella poltrona; il suo desiderio di tirarsi fuori da questi giochi vani, da questo starnazzare per una poltrona, la sua stanchezza per il potere (che a novant’anni appare veramente nulla) tutto questo è una scintilla di saggezza (non so se derivi dal suo essere laico o dal suo essere, come è, cattolico).

Forse proprio per questo bisognerebbe costringerlo a restare al Quirinale, incatenarcelo. O comunque trovare qualcuno che non vuole andarci. D’Alema no. Troppo arrapamento. Ne abbiamo già avuti di arbitri che smaniano di tirar calci al pallone e pure a qualche giocatore: Scalfaro è stato il peggiore. D’Alema sarebbe vieppiù pericoloso perché assai più capace di Scalfaro. Dovrebbe rifletterci del resto D’Alema stesso: è persona intelligente e nient’affatto banale. Ha le sue doti e dunque se le giochi sul campo come centravanti. Abbia il coraggio.

E magari rifletta sul potere e su un certo sentimento disperante dell’esistenza. Certe risorse spirituali nascoste le ha. Lo ricordo una volta a parlare di un film che gli era assai piaciuto, “Lezioni di piano”, film nient’affatto politico. Molto umano. Drammatico. Rifletta sul suo passato comunista, sempre rivendicato con orgoglio. Sul veleno dell’odio ideologico che continuano a far circolare nel “popolo della sinistra” (come si è visto il 25 aprile e il 1 maggio). Sul pericolo di una Sinistra che controlla al contempo i Palazzi e le piazze, cioè il potere e le marmaglie dell’odio e dell’intolleranza faziosa. Sui danni orrendi che ha provocato un’ideologia che ateisticamente crede che il potere sia tutto e non vi sia l’Eterno. Su un passato mai rivisitato davvero (come dimostra la reazione ai libri di Giampaolo Pansa sugli eccidi del dopoguerra).

Sulla necessità della pietà e dell’umiltà. Vuol passare alla storia? Ebbene, chieda lui scusa del dolore provocato dal comunismo (anche se non ne è personalmente responsabile). Mostri comprensione e dolore per le vittime. E orrore per il Male. Come ha cominciato a fare in un recente libretto dove svelava lo schifo che nutriva Berlinguer (vent’anni prima) per i regimi dell’est. Lo proclami alla sua base che i regimi comunisti facevano schifo. Almeno nel 2006. Perché il Male non può essere dimenticato.

Quando gli operai polacchi di Solidarnosc nel 1980 riuscirono a far innalzare un monumento ai loro compagni uccisi dalla polizia comunista negli scioperi precedenti, alla base fecero scolpire questa poesia di Czeslaw Milosz, premio Nobel vissuto in esilio: “Tu che hai oltraggiato l’uomo semplice/ Ridendo sguaiato sulla sua sorte/ con intorno una corte di buffoni/ per confondere Bene e Male./ Benché tutti sian proni ai tuoi piedi/ Virtuoso e saggio te proclamando,/ Medaglie d’oro in tuo onore forgiando/ Lieti del giorno che loro concedi,/ non ti sentire al sicuro. Il poeta ricorda./ Puoi ucciderlo, un altro è già nato./ Ogni atto e parola verrà registrato./ Meglio per te un ramo dal peso piegato/ in un’alba invernale e una corda”.

Anche quel potere è crollato. E in Italia si aspetta ancora il comunista coraggioso che dirà tutta la verità. Lui sì che meriterà di rappresentare un intero Paese.

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