Risposta a Vittorio Feltri
Vittorio Feltri è un uomo che si è fatto da sé. Così pensa lui. Ritiene che il buon Dio non fosse all’altezza. Infatti il direttore di Libero non gli riconosce alcun merito, ma solo demeriti: aver creato il mondo che “è cattivo” perché tortura le aragoste. Vittorio il Buono oltre a se stesso, dopo aver creato Farina, afferma di aver “inventato” anche il sottoscritto. Lo ha ripetuto pure venerdì su Libero, insieme con una sequela di complimenti travestiti da insulti che ha gentilmente vergato per pubblicizzare l’uscita di un mio libro (grazie). A dire il vero quando, nel 1993, cominciai a scrivere per l’Indipendente, credevo di esistere già: giornalista da dieci anni avevo diretto una rivista internazionale, “30 Giorni”, oggi firmata da Giulio Andreotti, e avevo scritto diversi libri di quelli che Feltri userebbe per accendere la pipa. Ma da anni ripete che mi ha “inventato” lui. Pazienza. Anche venerdì però è finito a parlare di soldi. Gli piace assai. A me invece annoia, mi appassionano altre cose, ma ognuno ha il suo “dio”. Temo di deludere enormemente il mio “inventore” rivelandogli che le mie idee (belle o brutte che siano) sono gratis e che le ho ammannite gratuitamente a chiunque volesse perder tempo a sentirle. A Berlusconi, certo. Ma non solo. Di recente ho parlato di Africa e solidarietà pure con Veltroni. Con molto piacere. E, poco prima della sua morte, con Indro Montanelli: di Dio, della vita e del suo significato. Se Pietro Citati non si offende confesserò che di recente ho avuto la ventura di passare anche un pomeriggio con un certo Joseph Ratzinger, sulle montagne bellunesi, a parlare di cose simili. E poi con migliaia di giovani, in tanti incontri. Non tedierò dunque i lettori rispondendo a Feltri su stipendi e “libri paga”. Io frequento altri libri. Del resto a provocare il lungo e dolente poema di Feltri – un’intera pagina di Libero – è stato proprio il mio libro, o meglio il titolo (giacché Feltri non è andato oltre quello e i primi capitoli). Titolo che recita “Com’è bello il mondo, com’è grande Dio”. Una frase che – ho spiegato nell’introduzione – non è mia, ma di don Giussani (a cui peraltro il volume è dedicato). Feltri non l’ha digerita. Non mi sento all’altezza di discutere la sua teodicea (caro Vittorio, non è una parolaccia, consulta la garzantina): lascio volentieri questa incombenza a Farina che – essendo laureato appunto in filosofia – annovera il suo direttore tra Leibniz, Schopenhauer ed Hegel (il caro Renato ha la penna del grande umorista: una volta, se non erro, paragonò Sbardella a Platone). Io essendo, come scrive Feltri, “brillante, ma cattolicissimo” (che disgrazia!), non saprei nulla “dei dolori provocati dal cancro dell’anima che divora i laici e gli atei”. Noi cattolici infatti siamo tutti dei beoti gaudenti, ce la spassiamo, libiam nei lieti calici ignari delle sofferenze dell’umanità. Pensate a gente come Madre Teresa di Calcutta, lei sì che ha fatto la bella vita. Mentre gli atei dichiarati come Feltri o D’Alema, poverini, si macerano nel dolore. Feltri emette così la sua sentenza di condanna inappellabile: “il Progetto di Dio fa schifo, il mondo è un orrore”. A occhio e croce, considerato l’abbigliamento curato, la bella pipa, la passione per l’ippica e la pettinatura (di soldi non parlo) non mi pareva che a Vittorio buttasse così male. A mio padre che faceva il minatore andava un po’ peggio, ma non ricordo di avergli mai sentito dire quelle parole di condanna contro Dio. Quello che fa schifo non è il creato, Vittorio, ma la bestemmia e l’ingratitudine. Di tutti noi (peraltro nati nella bambagia). Dunque, caro Feltri, sarebbe bene pentirsi e chiedere perdono alla misericordia di Dio, che è tanto sconfinata da sopportare perfino noi due. Vorrei anche dire al buon Dio che Feltri non va preso sul serio, in realtà non crede davvero in ciò che ha scritto. Uno che ci credesse per essere conseguente penserebbe al suicidio, non a scrivere brillanti editoriali. O magari si arruolerebbe nelle bande jihadiste, perché quel tipo di nichilismo (il mondo sprofonda nel male, il mondo fa schifo) è simile al loro sottofondo psicologico inconfessato. Lo stesso dei rivoluzionari degli ultimi due secoli: è l’ennesimo travestimento dell’antica gnosi che giudicava il creato un orrore plasmato da un Demiurgo maligno. Senza accorgersene Feltri non ha fatto che ripetere (con linguaggio più brillante) la teodicea formulata giorni fa da Pietro Citati contro cui si scagliò ferocemente per la questione della Fallaci. Litigano, ma sbandierano la stessa idea (disperata) della vita. E’ evidente che nessuno dei due ci crede. Infatti tuonano contro il terrorismo nichilista il quale proclama “amiamo la morte quanto voi amate la vita”. Sono tutti e due attaccati alla vita. Per il fatto stesso che viviamo in ogni istante affermiamo un quid per cui vale la pena vivere, lavorare, scrivere un libro, un articolo, sorridere, perfino lamentarsi. Per Feltri sarà la bellezza delle valli bergamasche o per Citati il colore della Maremma toscana. Saranno certi volti amati, certi occhi, certi sorrisi, saranno chissà quali frammenti di bellezza che brillano nelle giornate di tutti i mortali. Certo, c’è anche il male e l’orrore nel mondo, ce ne accorgiamo tutti. Ma il creato non è il Male. Quella che va in scena è la titanica lotta fra la vecchia creazione e la nuova. Si tratta, diceva san Paolo, “delle doglie del parto”. E’ il travaglio che vive il cosmo e perfino ciascuno di noi. Perché un fatto storico ha cambiato tutto: la Resurrezione di Gesù, colui che giganteggia nelle pagine del Vangelo, che si è preso sulle spalle tutta la sofferenza del mondo e da quell’abisso ha proclamato la sua vittoria. Risorgendo dalla morte. E’ solo per Lui che Francesco d’Assisi poteva concepire un inno luminoso come il Cantico delle creature. Lo scriveva proprio negli anni dell’eresia catara, che affermava la malignità del creato, l’orrore della vita. E lo scriveva non da ingenuo sognatore. Bensì con le lacrime e il sangue dei dolori atroci agli occhi e nelle carni, a San Damiano. Francesco aveva attraversato tutto l’oceano dell’assurdo, quando il male di vivere ti divora e tutto il mondo appare senza senso, ma lì, sulla soglia del suicidio aveva conosciuto Cristo (era stato trovato da Lui), cosicché tutto ritrovò senso e gusto e bellezza, perfino nelle piaghe della malattia e negli amati dolori delle stimmate. “Com’è bello il mondo e com’è grande Dio”. Quello che mi ha colpito in questa frase francescana di Giussani è averla sentita ripetere da una quantità di persone provate dalla vita e visitate dalla sofferenza, come i derelitti di Madre Teresa che si sentono dei re quando vengono raccolti e amati da quelle piccole suore. Nel mio libro ho raccolto storie così perché non c’è niente al mondo di più commovente. E’ un miracolo permanente. Tutte le opinioni del mondo, di intellettuali o giornalisti, non valgono il “fatto” concreto di questa nuova umanità, di questa gioia pur dentro le lacrime. Sono la prova che Cristo è risorto. Strano paradosso. Il mondo (laico, moderno) ha abbandonato la Chiesa accusandola di reprimere la gioia di vivere e oggi, ai primi segni della cervicale e della bronchite, sprofondato nella cupezza disperata, accusa la Chiesa di lodare la bellezza della vita. Il Manifesto ha addirittura accusato il papa perché ha annunciato “la Felicità”. Eppure il cristianesimo è questa novità che sta nascendo. Venite a vedere.
Fonte: © Il Giornale – 12 settembre 2005