DAZI AMARI? PROBABILMENTE NON PER NOI. E COMUNQUE C’E’ UNA STORIA CHE NON VIENE RACCONTATA
Il mainstream vive di slogan e demonizzazioni. Lo abbiamo visto pure in questi giorni. La Sinistra e i media hanno dedicato più tempo e più spazio all’interpretazione (sbagliata) del braccio teso di Elon Musk che all’analisi seria dei contenuti e delle ragioni del programma enunciato dal nuovo presidente Trump.
Anche per liquidare tale programma del resto sono ricorsi alla semplificazione faziosa: per esempio i dazi. D’improvviso si è cominciato a gridare che gli annunciati dazi alle merci europee, esportate negli Usa, sono una mazzata tragica che il cattivo Trump sta per infliggerci (mentre la vera mazzata è stata il Green Deal europeo che loro hanno applaudito).
Peraltro al momento i dazi sono solo annunci (si dovrà trattare) e ci è costata molto più dei possibili dazi la serie di sanzioni che da anni la UE ha imposto contro la Russia: hanno danneggiato più noi che la Russia. E non hanno portato la pace.
Qualcuno ha notato che se Trump mette fine alla guerra (oltre alle tante vite ucraine e russe risparmiate) noi guadagniamo (economicamente) ben più di ciò che perdiamo con gli eventuali dazi su alcune merci.
Ma – per restare ai dazi – davvero sono scandalosi e incomprensibili? Non sono piuttosto uno dei normali strumenti di politica economica (insieme al cambio, a cui però noi abbiamo rinunciato non avendo più una moneta sovrana) con cui uno Stato normale difende il proprio tessuto produttivo? Cosa dicono gli addetti ai lavori?
Un grande storico dell’economia, Paul Bairoch, nel libro Economia e storia mondiale (Garzanti) scrive: “nelle regioni che vennero gradualmente a comporre il mondo sviluppato, il protezionismo fu la politica commerciale dominante. Tale fu soprattutto il caso degli Stati Uniti che, lungi dall’essere un paese liberista come molti pensano, può essere definito ‘la culla e il bastione del protezionismo’ ”.
Poi spiega: “il moderno protezionismo è nato negli Stati Uniti. Nel 1791, Alexander Hamilton, primo segretario al Tesoro nel primo governo degli Stati Uniti, stilò il suo famoso Report on Manifactures, che è considerato la prima formulazione della moderna teoria protezionistica”.
Così gli Stati Uniti costruirono la loro strepitosa forza produttiva. Opposto è il caso dell’impero ottomano, il quale – come scriveva Disraeli, citato da Bairoch – con “un’applicazione totale e prolungata nel tempo del sistema della concorrenza illimitata” ha avuto un risultato disastroso: “ha distrutto alcune delle più belle manifatture del mondo”.
La conclusione è semplice: neanche all’economia si addice il dogmatismo ideologico. L’interesse di un Paese in una fase storica può essere una politica protezionistica e in un’altra la concorrenza illimitata. Occorre pragmatismo.
La pragmatica Giorgia Meloni prima è stata attaccata perché unica leader europea ad essere stata invitata e ad essere presente al giuramento di Trump. Come se avesse “tradito” la Ue. Subito dopo ci hanno ripensato e, come ha scritto il Financial Times, ora “la Ue conta su Giorgia Meloni per scongiurare i dazi della Casa Bianca”.
Ma attenzione: non esistono gli Stati Uniti d’Europa. È specialmente il grande surplus commerciale della Germania a irritare gli Stati Uniti (e a danneggiare tutti i Paesi UE). In una eventuale guerra commerciale fra Usa e Ue bisogna evitare di pagare noi – come in passato – il conto dei tedeschi. Per la premier italiana prima viene il nostro interesse nazionale. Inoltre nella Ue ora molte cose dovranno cambiare.
Antonio Socci
Da “Libero”, 25 gennaio 2025