Ieri molti hanno cercato di vedere le stelle cadenti. E’ dalla notte dei tempi che gli uomini guardano il cielo stellato pieni di meraviglia e di timore: uno spettacolo commovente perché ha a che fare col mistero del nostro essere nell’universo, con la nostra solitudine.

C’è una traccia nella nostra lingua, nella parola “desiderio”. Infatti “de-sidera” etimologicamente rimanda all’impossibilità di vedere le stelle, quando gli aruspici non potevano scrutare gli astri per decifrare un destino e i viandanti non potevano orientarsi per ritrovare la strada.

Così gli antichi chiamavano “desiderantes” quei soldati romani che, preoccupati, attendevano il ritorno incerto dei propri compagni dal campo di battaglia.

Ma “desiderantes” sono tutti coloro che soffrono una mancanza o una nostalgia, siamo tutti noi per il buio che avvolge il nostro destino.

Soldati di non si sa quale guerra, inquieti viandanti, inappagati sognatori alla ricerca di noi stessi, con tante domande sul senso della vita e sulla nostra sorte, come in una notte senza stelle.

Con la sua sensibilità ebraica, George Steiner dice: “Siamo le creature di una grande sete, ossessionate dal ritorno a una casa che non abbiamo mai conosciuto. […] Più che ‘homo sapiens’, l’uomo è ‘homo quaerens’ ”.

E’ una creatura desiderante e mendicante. E chissà che ad ogni stella cadente non si dica “esprimi un desiderio” per questa antica memoria che lega “sidera” (stelle) a “de-sidera”.

IL CAOS DANZANTE

In realtà sappiamo che quelle scie luminose che solcano la volta celeste sono solo detriti spaziali che cadono nella nostra atmosfera e per l’attrito s’incendiano.

L’universo intero di per sé è uno spaventoso ammasso di gas infuocati nello spazio tenebroso e senza vita, ovvero – ciò che atterriva Pascal – un immane abisso, orrido, di gelo e di fuoco, teatro di continue catastrofi cosmiche.

Ma da tempo immemorabile gli uomini hanno colto in tutto questo un misterioso ordine, un’armonia e quindi una suggestiva bellezza. Trasformarono il “caos danzante” nel “cielo stellato”.

Cercarono di decifrare il linguaggio del cosmo cogliendo negli astri figurazioni simboliche che chiamarono costellazioni. Poi studiarono il moto regolare dei corpi celesti e il legame dell’uomo con l’universo.

Il dato naturale divenne così un fatto culturale, “il cielo stellato sopra di me” rifletteva il cielo stellato “dentro di me”. E tutto questo diventò una civiltà millenaria.

Cosicché noi oggi guardiamo le “stelle cadenti”, ma non ne siamo atterriti perché vediamo in realtà il “notturno” dipinto da Van Gogh e suonato da Chopin. Anche se non ne siamo consapevoli.

Che lo sappiamo o no, guardare il cielo stellato nel 2016 è un potente gesto anti-relativista. Noi infatti vediamo lassù un ordine, una bellezza, che è dentro di noi e che abbiamo imparato o ereditato dalla cultura che abbiamo respirato.

“Dopo Van Gogh i cipressi ardono, dopo Klee gli acquedotti camminano” ha scritto Steiner.

Il cielo stellato che “vediamo” è in realtà l’immagine che riceviamo dalla nostra civiltà, che abbiamo interiorizzato anche se non abbiamo studiato.

OMERO IN NOI

Pochi – guardando il cielo in questi giorni – rammenteranno le leopardiane “Ricordanze”:

“Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea

Tornare ancor per uso a contemplarvi…”.

Ma in realtà tutti hanno già lo sguardo e la poesia di Leopardi addosso, anche se non ne conoscono un verso, perché fa parte della cultura che li ha cresciuti e si è fatta in loro carne, sangue, occhi e cuore.

E tutti avranno, inespresse nel cuore, le sensazioni e le domande che Leopardi rappresentava col suo pastore errante dell’Asia:

E quando miro in cielo arder le stelle,

Dico fra me pensando:

A che tante facelle?

Che fa l’aria infinita, e quel profondo

Infinito seren? che vuol dir questa

solitudine immensa? ed io che sono?”

Lo sguardo dell’uomo verso l’infinito, così come si è stratificato nella cultura umana, nella religiosità, nelle civiltà, è oggi il nostro sguardo personale, la nostra sensibilità spontanea. Anche se non ce ne rendiamo conto.

Infatti il “nostro” cielo stellato si trova già agli inizi della letteratura. Piero Boitani, nel suo splendido volume “Il grande racconto delle stelle” (Il Mulino) spiega che “la prima immagine letteraria delle stelle” ha circa tremila anni e si trova nel libro VIII dell’Iliade:

“come quando le stelle nel cielo, intorno alla luna che splende,

appaiono in pieno fulgore, mentre l’aria è senza vento,

e si profilano tutte le rupi e le cime dei colli e le valli;

e uno spazio immenso si apre sotto la volta del cielo,

e si vedono tutte le stelle, e gioisce il pastore in cuor suo:

tanti falò splendevano dalle navi e il letto di Xanto, quando i Troiani accesero i fuochi davanti alle mura di Ilio”.

Ma perché Omero rappresenta questo bellissimo notturno (in cui già troviamo i versi di Leopardi)? Cosa c’entra con quell’atroce e antica guerra? La legge della poesia, spiega Boitani, impone ad Omero di “cantare la notte e le stelle e il cielo infinito: il bello, il sublime”.

E’ la stessa sublime bellezza di Elena che fu la causa di quella guerra. Così, per cantare la bellezza del cielo stellato, Omero fa fermare Ettore, il quale non scatena l’attacco definitivo che forse gli avrebbe dato la vittoria.

“Perché noi si possa guardare le stelle, Troia perde la Guerra. Forse ne vale la pena”, conclude Boitani. Questa è la morale: nella bellezza sublime del cielo stellato rifulge qualcosa che vale più della vita e della vittoria terrena.

Il volume di Boitani è una brillante ed erudita traversata dell’arte universale “sotto le stelle”, ma l’autore segnala che la scienza moderna non ha affatto dissolto la bellezza e la poesia del cielo stellato.

POESIA DELLA FISICA

Cita il grande fisico Richard Feynman:

“I poeti dicono che la scienza rovina la bellezza delle stelle, riducendole solo ad ammassi di atomi di gas. Solo? Anch’io mi commuovo a vedere le stelle di notte nel deserto, ma vedo di meno o di più? La vastità dei cieli sfida la mia immaginazione… il mio occhio riesce a cogliere luce vecchia di un milione di anni. Vedo un grande schema… Qual è lo schema, quale il suo significato, il perché? Saperne qualcosa non distrugge il mistero, perché la realtà è tanto più meravigliosa di quanto potesse immaginare nessun artista del passato”.

Lo scienziato infatti scopre che solo per un perfetto dosaggio di forze, dopo il Big Bang, la materia ha potuto organizzarsi in ammassi ordinati; che ferrei valori numerici li hanno armonicamente legati e che erano necessari questi forni cosmici, le stelle, per fabbricare le sostanze che poi, dopo una serie incalcolabile di coincidenze – che sembrano deliberatamente progettate – sorgesse un piccolo pianeta dove “casualmente” si verificano insieme tutte le condizioni che rendono possibile la vita.

E in essa quel piccolo essere che – unico nell’universo – è in grado di comprendere queste leggi cosmiche, di commuoversi per la bellezza di questo ordine e di aver coscienza di sé, disponendo di “circa cento miliardi di neuroni, cellule nervose […] interconnesse l’una con l’altra in maniera estremamente intricata” perché “ogni neurone si connette in media con 10.000 altri neuroni” e “il numero di interconnessioni sinaptiche di un singolo cervello umano supera abbondantemente quello delle stelle della nostra Via Lattea:1015 sinapsi contro 1011 stelle” (Gingerich).

Così un “disegno intelligente” traspare sia dal cielo stellato che dalla grandezza misteriosa dell’uomo.

Il matematico Henri Poincaré scriveva:

“Lo scienziato non studia la natura perché ciò è utile, la studia perché ne prova piacere e ne prova piacere perché essa è bella… quella bellezza che viene dall’ordine armonioso delle parti”.

La scienza, la poesia del mondo e il cristianesimo parlano dello stesso Logos, la stessa unica e bella verità.

Questo sapeva Dante che la celebrò nel suo divino poema il cui ultimo verso canta “l’amor che move il sole e l’altre stelle”.

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Antonio Socci

Da “Libero”, 11 agosto 2016

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