Di solito Mario Draghi viene sempre trattato con i guanti bianchi dai media. Le rarissime critiche – in questo anno di governo – sono sempre state vellutate, appena accennate e magari precedute o seguite da grandi elogi fra volute di incenso.

Certo, fa eccezione Marco Travaglio che, come nel suo stile, usa l’artiglieria pesante. Ieri scriveva: “il premier ha provato con ogni mezzo a farsi incoronare presidente di una Repubblica presidenziale, travolgendo regole, prassi e buona creanza, a costo di spappolare la sua maggioranza e i relativi partiti e di esporre il governo e l’Italia alla tempesta. Ma non ce l’ha fatta: i primi sconfitti sono lui e i suoi trombettieri”.

Oggi – senza bisogno di adottare i toni di Travaglio – è ormai venuto il momento di finirla con il coro plaudente, anche perché Draghi, immergendosi nella battaglia presidenziale, ha perso molto (se non tutto) del suo profilo istituzionale e super partes.

Di fatto dall’Olimpo è sceso nell’arena politica, perciò da oggi le sue azioni e le sue parole saranno inevitabilmente valutate come quelle dei leader politici e sottoposte allo stesso vaglio critico.

Stonature ed errori del premier, per la verità, si erano notati fin dall’inizio, ad esempio nel modo quasi sprezzante con cui sono stati trattati i partiti di centrodestra al momento della formazione del governo e poi nella gelida marginalizzazione del Parlamento (cosa che è costata a Draghi l’ostilità dei grandi elettori).

Ma – visto il compito delicato e drammatico a cui era stato chiamato: il piano di vaccinazione e il rilancio dell’economia – era anche giusto avere un occhio di riguardo per l’azione del governo.

Anche se lasciava molto perplessi la sua comunicazione (pure quella del premier) su vaccinazione e pandemia e anche se alcuni ministri (in particolare Speranza e Lamorgese) si stavano dimostrando – obiettivamente – inadeguati.

Si riteneva comunque di avere, al timone del governo, un fuoriclasse, capace di fare politica ad alto livello, un qualificatissimo “uomo al servizio delle istituzioni” (come lui si è definito) che puntava solo all’obiettivo alto e nobile di tirar fuori il Paese dalle sue emergenze.

Proprio per questo, quando, in autunno, è iniziata la corsa per il Quirinale e ha cominciato a circolare con insistenza il suo nome, si immaginava che Draghi immediatamente si defilasse dalla competizione dichiarando che era stato chiamato a svolgere un compito importante e delicato al governo del Paese e voleva portarlo a compimento senza essere distratto da altro.

Sarebbe stato il modo migliore per dimostrare, con elegante distacco da ogni ambizione personalistica, il suo profilo di uomo delle istituzioni e forse proprio così – al momento opportuno, cioè nel prevedibile stallo delle votazioni dei grandi elettori – il suo nome sarebbe apparso come la possibile soluzione super partes. E lui avrebbe potuto svolgere dal Quirinale un ruolo di garanzia internazionale nell’interesse del Paese.

Ma le cose sono andate diversamente. Il suo interesse per il Quirinale (qualcuno ha parlato di “malcelata smania”) si è fatto sempre più evidente.

Inoltre in autunno l’azione del governo (che fino a quel momento aveva conseguito buoni risultati) si è appannata e quasi fermata (basti ricordare, per esempio, il ritardo nell’avvio della terza vaccinazione).

Arrivati alle votazioni per il Quirinale, Draghi è stato candidato dal solo Enrico Letta, quindi si è trovato con la maglia del Pd (buona parte del quale peraltro non lo voleva) e di nuovo non si è sottratto a questa identificazione partitica.

Infine c’è stato il suo attivismo nei giorni delle votazioni mentre il Paese continuava a vedere i suoi problemi non affrontati.

Il bilancio è dunque disastroso. Da ora in poi sarà inevitabile guardare a Draghi in modo molto diverso e considerare che anch’egli ha le sue ambizioni personali, del tutto legittime – sia chiaro – ma politiche. È diventato di fatto un politico.

Ieri Fausto Carioti, su queste colonne, spiegando che il governo ora potrebbe prendere una direzione molto dura, ipotizzava che Draghi punti alla presidenza del Consiglio europeo o della Commissione Ue che si liberano nel 2024.

Tuttavia può anche continuare a coltivare il sogno del Quirinale. Non solo perché Mattarella potrebbe dimettersi dopo un paio di anni come Napolitano, ma anche perché c’è già chi parla di un Draghi a Palazzo Chigi per cinque anni dopo il 2023 (cosa che poi lo proietterebbe facilmente al Colle).

Chissà, magari sono solo voci, ma se l’azione di governo ora si appiattisse sulle posizioni del Pd, non solo andrebbero in grave difficoltà Lega e FI e il centrodestra sarebbe ancor più terremotato, ma poi Draghi potrebbe diventare il naturale candidato premier del centrosinistra alla elezioni del 2023. Sarebbe forse l’unica chance di vittoria per la Sinistra.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 31 gennaio 2022

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