Secondo le cronache dei giorni scorsi Enrico Letta e Giuseppe Conte, per fare un summit riservato, hanno pranzato insieme da “Settimio”. Così si è saputo subito che il tema del colloquio è stato l’ormai prossima elezione del nuovo presidente della Repubblica.

Forse il Pd voleva far sapere che intende “dare le carte”, anche stavolta nell’elezione del presidente. Attorno a quel tavolo Letta ha voluto sondare Conte e il M5S sulla possibile candidatura di Paolo Gentiloni (Pd).

Nessuno ha fatto una riflessione su questo episodio, che annuncia la strategia del Pd sul Quirinale. Ma una riflessione va fatta.

Nella seconda repubblica, a parte Oscar Luigi Scalfaro, eletto nel 1992 dal parlamento dei vecchi partiti (poi Scalfaro non simpatizzò certo per il Centrodestra), al Quirinale sono saliti Carlo Azeglio Ciampi, eletto nel 1999, poi nel 2006 Giorgio Napolitano, rieletto nel 2013, e infine Sergio Mattarella eletto nel 2015.

Tutte ottime e autorevoli personalità. Ma ciò che qui interessa è il percorso seguito dai partiti per la loro elezione. Infatti sono tutti nomi proposti dal centrosinistra e in particolare – dal 2007, anno di nascita del Pd – dal partito di Letta.

Invece il Centrodestra, fondato nel 1994, pur avendo vinto più volte le elezioni e avendo governato a più riprese, non ha mai avuto la possibilità di indicare un nome per la più alta carica dello Stato.

Sarebbe dunque giusto che, dopo 28 anni, il Centrodestra potesse finalmente proporre una sua candidatura. Tanto più oggi che è la coalizione maggioritaria nel Paese e non solo nei sondaggi, ma è risultata maggioritaria sia alle elezioni politiche del 2018 che – ancor più – alle europee del 2019 (un primato confermato dalle varie elezioni regionali).

Infatti nel 2018 il Centrodestra prese 15 punti percentuali più del Centrosinistra (37 per cento contro 22) e alle europee del 2019 il Centrodestra prese circa il 49,5 per cento, mentre il Centrosinistra ancora il 22,7 per cento.

Il Pd è stimato oggi fra il 18 per cento (che fu il suo risultato alle politiche) e il 20 per cento: è un partito largamente minoritario nel Paese.

Nonostante ciò – stando a quanto è emerso sulla candidatura di Gentiloni – ritiene di poter mandare al Quirinale, per l’ennesima volta, un suo esponente, come nelle precedenti occasioni.

Sarebbe ragionevole che il Pd riconoscesse, per la prima volta, al Centrodestra, che è maggioranza, il diritto di indicare dei nomi su cui poi raccogliere il consenso parlamentare più ampio. Ma Letta non sembra intenzionato a farlo.

Cosa denota questo atteggiamento? Prima ipotesi: il segretario del Pd e i dirigenti del suo partito sono terrorizzati dall’idea che – per la prima volta da decenni – il Capo dello Stato non venga dal Pd.

Perché se così fosse – dopo le elezioni del 2023, che potrebbero essere vinte dal Centrodestra – il Pd si troverebbe totalmente fuori dai Palazzi del potere dove ha, da sempre, la sua consistenza.

Seconda ipotesi: la strategia di Letta denota, da parte del Pd, una concezione proprietaria, come se questo partito ritenesse suo appannaggio esclusivo le istituzioni dello Stato.

Se – com’è probabile – sono vere entrambe le ipotesi, significa che dalle parti del Pd non si vuol capire, o non si vuol accettare, che almeno la presidenza della Repubblica debba rappresentare tutto il Paese, la sua unità, e quindi la scelta del candidato esiga dialogo fra tutti i partiti.

Eppure questo dice la nostra Costituzione all’articolo 87: “Il Presidente della Repubblica è il Capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale”.

Un’unità che è ancor più importante in questo momento in cui il Paese sta ancora affrontando l’emergenza della pandemia che si somma all’emergenza economica.

Sono circostanze storiche che esigerebbero una vera pacificazione nazionale e una concreta legittimazione reciproca. Come, peraltro, ha suggerito il presidente Mattarella quando – incaricando Mario Draghi – ha fatto appello “a tutte le forze politiche presenti in Parlamento perché conferiscano la fiducia a un governo di alto profilo”.

Questo esecutivo, nelle intenzioni di Mattarella e di Draghi, doveva essere proprio un’occasione di collaborazione e di legittimazione reciproca in un momento storico grave.

In effetti lo è formalmente, sulla carta, ma non nella realtà. Il modo in cui lo vivono i partiti, specialmente quelli di sinistra, non esprime volontà di dialogo se è vero che il Pd – mentre è in carica un governo di unità nazionale – pretende di mandare al Quirinale, ancora una volta, un candidato di fazione, come sarebbe Gentiloni, eletto solo da una parte.

Così si creerebbe una situazione anomala in cui il capo del governo di unità nazionale, Draghi, sarebbe più rappresentativo del presidente della repubblica appena eletto.

Questa volontà divisiva finirebbe per assestare un colpo mortale anche al governo guidato da Draghi, il quale – dopo essere stato eliminato dalla corsa per il Quirinale – potrebbe uscire pure da Palazzo Chigi (del resto uscirebbe comunque di scena dopo pochi mesi). Sarebbe una perdita grave per il Paese. Non senza conseguenze.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 27 ottobre 2021

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