Il cosiddetto “caso Di Cesare” non deve essere ridotto a una polemica di giornata o a provvedimenti contro la professoressa Donatella Di Cesare (che io, francamente, eviterei). È invece un’occasione per fare finalmente una seria riflessione culturale e politica. Che non è mai stata fatta davvero.

L’antefatto è il tweet che la Di Cesare, docente di filosofia all’Università La Sapienza di Roma, ha scritto per la morte della brigatista rossa Barbara Balzerani. In quel tweet, poi cancellato dalla docente, si leggeva: “La tua rivoluzione è stata anche la mia. Le vie diverse non cancellano le idee. Con malinconia un addio alla compagna Luna”.

Donatella Di Cesare è molto nota come opinionista e assai presente sui media, perciò le sue parole non sono passate inosservate ed è subito scoppiata la polemica.

Lo storico Gianni Oliva, sulla Stampa, ha osservato: “Salutare ‘con malinconia la compagna Luna’ perché ‘la tua rivoluzione è la mia pur per vie diverse’ (…) si carica ancor più di valenze negative per la figura cui si riferisce”, perché “Barbara Balzerani è una terrorista che non si è pentita”.

L’Università la Sapienza ha comunicato che il caso è rimesso “alla valutazione e al giudizio dei competenti organi di ateneo”.

Tuttavia la cosa veramente importante riguarda ciò che è accaduto in quegli anni e ciò che non è accaduto dopo. Seguire l’imbarazzato dibattito di questi giorni fa capire quali sono i problemi ancora aperti. Il primo è “l’alibi del ‘sogno rivoluzionario’”, come lo chiama Gianni Oliva.

Gian Carlo Caselli è intervenuto ieri, sulla Stampa, con un articolo intitolato “Perché i brigatisti erano soltanto criminali”. Caselli ha il merito di spazzar via ogni aura romantica: non è ammissibile riconoscere nessun “idealismo” a quei terroristi e a quella “lotta politica praticata con la violenza, senza nessun rispetto per la vita umana”.

Giustissimo. Detto questo bisogna aggiungere che le Brigate rosse non erano composte da pazzi che andavano ad ammazzare a caso: volevano fare una rivoluzione comunista perché professavanoun’ideologia marxista-leninista.

Nell’articolo di Caselli, che fa lunghe riflessioni storiche e politiche, non ho trovato riferimenti a questo. Si parla di “astratta ideologia” e di “fanatismo ideologico”, ma senza spiegare di quale ideologia si parla. Caselli accenna anche alla capacità dei brigatisti di mimetizzarsi. Ma era soprattutto nella società di quel tempo, molto ideologizzata ed estremista, che potevano farlo.

Da storico, Oliva sulla Stampa scrive: “c’è stata una responsabilità collettiva in quell’atmosfera greve di violenza”. In effetti dappertutto dominava l’intolleranza, la violenza politica era quotidiana ed è in questo clima che alcuni (grazie al cielo frange marginali) hanno pensato di poter prendere le armi contro lo Stato.

Oliva vede oggi “troppe indulgenze sospette, troppe condivisioni sottintese. Il retroterra dei ‘compagni che sbagliano’ sopravvive malgrado tutto”.

Ma io non credo affatto che ci sia qualcuno indulgente con il brigatismo. Casomai si è indulgenti con il passato della generazione a cui si appartiene. Il problema allora non è un tweet (sbagliato), ma come la Sinistra, con tutta una generazione, (non) ha fatto i conti con il suo passato.

Lo fa capire anche Massimo Cacciari il quale sostiene che la Di Cesare è stata fraintesa e che tutti i suoi scritti “dimostrano la sua radicale avversità” al “terrorismo degli anni di piombo”. Quello “che intendeva dire”, anche se “non lo ha espresso con chiarezza”, secondo il filosofo veneziano, è “esattamente ciò che allora disse Rossana Rossanda: anche il terrorismo rosso, piaccia o no, nasce da un humus comune, da un confusissimo, ma reale crogiuolo di lotte, speranze e illusioni che ha segnato gli anni tra i ’60 e i ‘70”.

È vero. Ma come si sono fatti i conti con quegli anni? Paolo Mieli ha detto che “nessuno può sentirsi completamente innocente per quel che accadde”.

È proprio così? No. Ci fu anche chi non fece mai atti violenti, chi non professò ideologie violente, chi non strillò mai slogan offensivi e minacciosi, ci fu chi sostenne le proprie idee con mezzi totalmente pacifici e subendo le violenze degli estremisti.

C’era anche chi – come i cattolici (ma non solo) – era attivo nelle scuole, nelle università e nelle fabbriche come una presenza pacifica e subì molti attacchi e aggressioni. E soprattutto c’era la maggioranza degli italiani che detestava ogni violenza.

Quel passato resta ancora un problema perché molto del settarismo di quegli anni, della propensione a demonizzare l’avversario, è rimasto nella pratica politica (e non solo). E avvelena il clima da decenni.

Oggi Cacciari – nell’articolo sulla Stampa che ho citato – critica “canee come quella scatenata sul ‘caso’ della Di Cesare” e “gli inauditi provvedimenti che si accingono a prendere a suo carico”, lamentando il fatto che l’Italia sta diventando “il Paese dell’intolleranza e della chiacchiera, delle facili demonizzazioni e delle censure”.

Aggiunge pure una riflessione: “si è così ciechi e sordi da non vedere la deriva che collega le gogne per chi criticava le politiche sanitarie durante il covid, le liste di proscrizione per i presunti filo-putinianicon casi anche apparentemente solo personali come questo della Di Cesare?”.

In realtà le demonizzazioni e le gogne vanno avanti da decenni e non da qualche mese, come sembra credere Cacciari, ma non è proprio questa una delle eredità di quegli anni? Non è uno dei frutti avvelenati di quell’intolleranza seminata a piene mani?

Si è archiviata l’ideologia marxista (senza autocritiche), ma non perdura ancora il suo settarismo? Ce ne accorgiamo solo nei rari casi in cui il problema riguarda qualcuno di sinistra?

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 10 marzo 2024

 

 

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