Dopo quattro mesi di guerra, il 21 giugno il Parlamento italiano potrà finalmente discutere sul conflitto Russia/Ucraina, in cui siamo stati “coinvolti” nostro malgrado, e così fornirà al governo la linea politica da tenere.

Per la verità il presidente del Consiglio finora ne ha fatto volentieri a meno, perché ha definito lui tale linea facendosi bastare la ratifica parlamentare del decreto governativo con cui, appena scoppiata la guerra, furono decisi i primi aiuti all’Ucraina.

Draghi ha pure evitato di andare in Parlamento prima del viaggio a Washington, nonostante le richieste di alcuni partiti della maggioranza. E in seguito ha ignorato gli inviti del maggior partito della coalizione, il M5S, a venire in aula a discutere sui nuovi invii di armi.

Stavolta invece non può evitarlo perché, a differenza dell’informativa del 19 maggio, prima del Consiglio europeo del 23 giugno è obbligato a presentarsi alle Camere che voteranno un atto di indirizzo.

Perché avrebbe preferito evitare di nuovo il voto del Parlamento?Draghi sa che la maggioranza del Paese è contraria all’invio di armi in Ucraina (lo dicono tutti i sondaggi di questi mesi) e sa pure che sono contrari a tale invio due decisivi partiti della maggioranza: Lega e M5S.

La situazione è paradossale perché sono i due partiti usciti da vincitori dalle elezioni politiche del 2018, ma oggi sono i meno considerati, anche se stanno pagando più salatamente di tutti – in termini di consenso – l’appoggio al governo. Invece il partito che uscì sconfitto dalle urne del 2018, il Pd, la fa sostanzialmente da padrone.

Il 21 giugno dunque M5S e Lega dovranno decidere se proporre una risoluzione che esprime la loro posizione o – ancora una volta – subire la posizione del Pd. Infatti il premier è sulle posizioni di Letta e una sconfessione parlamentare di tale linea potrebbe provocare la crisi di governo.

In una democrazia parlamentare dovrebbero essere le Camere a dare la linea al Capo del governo, ma oggi in pratica accade il contrario. E non è la linea dei partiti vincenti nelle urne, ma quella di chi uscì perdente.

Probabilmente alla fine sarà escogitata una risoluzione che salverà capra e cavoli, concedendo qualcosa a M5S e Lega, ma senza correggere la linea Draghi-Letta (e continuando a ignorare l’opinione dominante fra gli italiani).

Questa situazione mostra la scarsa salute democratica delle nostre istituzioni e l’anomalia di un governo tecnico, non uscito dalle urne, che fu varato in Parlamento con due obiettivi ormai superati (la vaccinazione anti covid e la formulazione del Pnrr) e che oggi vuole assumere un connotato politico sulla guerra, puntando sulla debolezza dei partiti.

Infatti le leadership di Conte e Salvini sono sotto continuo attacco, interno ed esterno. C’è chi vuol evitare che pesino di più sulle scelte di governo.

Degli altri partiti si fatica a cogliere la logica. Ripetono infatti che sulla questione ucraina bisogna avere una sola linea e senza incrinature: ma perché? Non siamo in una caserma. E poi quale linea? Chi la decide?

Se non vogliamo scivolare in una democrazia “alla russa”, la posizione da assumere deve emergere dal confronto parlamentare fra posizioni diverse. Quindi occorre un libero dibattito.

L’altro concetto che si sente ripetere, soprattutto dal Pd (preoccupato più di piacere ai governi stranieri che agli italiani) è quello per cui l’Italia deve appiattirsi sulla linea della Nato e della UE senza una proposta che rifletta i suoi interessi nazionali.

Ma una tesi del genere, oltre a raffigurare un’Italia succube degli altri Paesi, è anche fuori dalla realtà, perché – come ha dimostrato Lucio Caracciolo (uno dei pochi addetti ai lavori quando si parla di geopolitica), dentro la Nato attualmente ci sono almeno cinque linee diverse.

Inoltre è chiaro a tutti che la posizione di Biden e gli interessi americani sono diversi dagli interessi dell’Europa, in cui oltretutto abbiamo linee differenziate (basti considerare Francia e Germania).

Peraltro nei giorni scorsi Draghi ha dichiarato che l’adesione dell’Ucraina alla UE “trova l’obiezione di quasi tutti i grandi stati dell’Ue, esclusa l’Italia”.

Così scopriamo che, quando si vuole, si assume tranquillamente una posizione contraria a tutti i Paesi UE. Non solo: Draghi si è impegnato a nome del nostro Paese, ma non risulta che ci sia un atto di indirizzo del nostro Parlamento in materia. L’anomalia italiana continua.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 6 giugno 2022

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