Un venerdì nero? L’altroieri nelle stesse ore sono arrivate due mazzate. Il declassamento dei titoli di Stato dell’Italia da parte di Standard&Poor’s (ormai spaventosamente vicino al livello “spazzatura”) e la pubblicazione dell’annuale Rapporto Censis che sembra quasi la pietra tombale su questo povero Paese.

 

DIAGNOSI CUPE

 

In quelle pagine infatti si rappresenta una nazione che brancola nel buio di una “sconcertante rassegnazione collettiva”.

Siamo un popolo desolato che dopo aver trepidamente atteso la ripresa economica non l’ha vista arrivare e sa che non è affatto prossima.

All’orizzonte c’è addirittura lo spettro di un declino che diventa irrevocabile e irredimibile.

Perciò gli italiani sono rappresentati dal Censis come soli, impauriti, vulnerabili e alla fine cinici.

Dario Di Vico ha ricordato l’antipatia che Giuseppe De Rita, mente del Censis, ha per il “renzismo” e il suo “decisionismo inconcludente”, ma ha anche osservato – giustamente – che una tale sentenza di disfatta non può essere attribuita a un solo governo che è nato da pochi mesi.

Il declassamento di S&P e il cupo quadro disegnato dal Rapporto Censis 2014 obiettivamente sono un verdetto di fallimento, di totale e solenne bocciatura, per tutti gli ultimi governi, soprattutto quelli del “rigore tedesco”: siamo nel baratro a causa della loro incapacità di guida, di visione e delle loro scelte dissennate che hanno dissanguato il Paese oltretutto ingigantendo il debito pubblico che ci schiaccia invece di risolverlo.

Tutto questo ha conseguenze devastanti, materiali e morali, sulla vita quotidiana delle persone e delle famiglie.

E’ interessante che sia De Rita che Renzi – oggi in conflitto – appartengano alla stessa area culturale e politica, quella sinistra democristiana che, nei nostri anni, ha avuto in Romano Prodi la sua incarnazione suprema (anche come protagonista dell’Europa dell’euro).

 

NUOVO UMANESIMO ?

 

Sempre venerdì, nelle stesse ore, c’è stato un altro evento, passato quasi inosservato, ed è il tradizionale discorso di S. Ambrogio dell’arcivescovo di Milano, Angelo Scola, che quest’anno ha messo a tema “Un nuovo umanesimo per Milano e le terre ambrosiane”.

Ha iniziato richiamando il dovere dei cristiani di contribuire “all’edificazione della vita buona”. Ed è già una bella partenza in un tempo di fuga dei cristiani nella comoda scelta intimistica delle sacrestie e della psicologia.

Ha indicato ai cristiani la strada del “nuovo umanesimo” perché si è parte della famiglia umana e perché si è “seguaci di un Dio incarnato che ha assunto la condizione umana” anche “per accompagnarci nel nostro quotidiano cammino su questa terra”.

Scola ha precisato che “non si deve però parlare in astratto di un umanesimo buono per tutte le stagioni. Solo se sorge dal di dentro dei ritmi e dei processi dell’attuale travaglio storico si può parlare di nuovo umanesimo”.

Quindi – “non perdendo l’origine” – occorre aiutare una fioritura degli uomini concreti di oggi e della loro vita. E’ quella che si suole chiamare: scommessa sul “capitale umano”.

E già qui si tocca un tasto dolentissimo perché, secondo il Rapporto Censis, l’Italia è un Paese dal capitale umano “inagito e dissipato”, con 8 milioni di persone ferme, non utilizzate, fuori dalla vita economica e sociale (gran parte dei quali sono giovani, “umiliati” come mai prima).

Uno spreco di risorse umane paragonabile solo allo spreco delle nostre bellezze naturali e artistiche.

Tuttavia abbiamo bisogno di persone che indichino una strada percorribile, una speranza. Che magari si possa imparare dalla nostra storia, da quello che hanno vissuto i nostri padri.

C’è dunque un passaggio significativo nel discorso di Scola che

dice: “Guardando la nostra storia possiamo parlare di un autentico umanesimo della responsabilità: piedi per terra e sguardo volto al cielo. Questa tradizione ha continuato ad alimentare, anche se in variegati modi e con diversa intensità, le terre ambrosiane nel corso degli ultimi sessant’anni. Sono ancora presenti i benefici frutti di una stagione storica caratterizzata da uno sviluppo accelerato reso possibile nel dopoguerra dalle energie costruttive delle nostre genti e degli immigrati italiani”.

 

LA FEDE DEI PADRI

 

E’ un implicito richiamo al secondo dopoguerra quando il Paese era uscito devastato dal conflitto mondiale, sia materialmente che civilmente.

In quel contesto l’Italia, con un’economia quasi sottosviluppata e senza risorse energetiche, compì quel “miracolo economico” che lasciò di stucco il mondo intero, schizzando, in pochissimi anni, ai vertici dei paesi industrializzati, tanto che ancora attorno all’anno 2000 su 18 milioni di imprese presenti in Europa (sia grandi che piccole), ben 5 milioni erano in Italia.

Tutto questo prima dell’arrivo dell’euro.

Scriveva Sandro Fontana nel 1998: “ultima arrivata fra le nazioni industrializzate del nostro continente, (l’Italia) è oggi al primo posto per imprenditorialità diffusa…e al primo posto anche come ‘valore aggiunto’, cioè come capacità di trasformare materie prime e, quindi, di esportare prodotti finiti”. Infine – aggiungeva – “l’Italia si trova ai vertici della graduatoria europea anche per quanto riguarda la capacità di risparmio delle famiglie”.

Ancora oggi, notava Scola, viviamo dell’eredità benefica di quel “miracolo economico” sbocciato proprio dal “capitale umano”. Che fu fatto fiorire precisamente dalla fortissima connotazione cristiana del popolo italiano.

Tutto partì infatti da quella Lombardia che, come ha spiegato il cardinale Giacomo Biffi, grazie a San Carlo Borromeo aveva assimilato più di tutti il Concilio tridentino (la sottolineatura del “merito”, contro il luteranesimo) come etica del lavoro e del dovere, ma dentro una gioiosa e creativa speranza (e non nel cupo orizzonte calvinista).

Lo dimostra il libro che ho citato poco sopra, scritto da Sandro Fontana e uscito nel 1998 col titolo “La riscossa dei lombardi”. Sottotitolo: “Le origini del miracolo economico nella regione più laboriosa d’Europa 1929-1959”.

 

COME ERAVAMO

 

La situazione 1946-1948, spiegava Fontana, era analoga a quella del 1870 quando, a causa della violenta “conquista piemontese”, 20 milioni di italiani (metà del Paese) furono “costretti a vendere le loro braccia in ogni luogo del pianeta”. Da quel disastro postrisorgimentale sono venuti tutti i problemi dell’Italia di oggi, soprattutto il sottosviluppo del Meridione.

Ma qualcosa di grande è accaduto già nel primo dopoguerra: nel territorio brianzolo “si erano manifestati con prepotenza e intensità” scrive Fontana “i sintomi d’una industrializzazione rapida e diffusa, basata sul lavoro a domicilio e sulle piccole attività imprenditoriali, sulla figura del mezzadro-operaio e sull’incremento accelerato della proprietà contadina”.

Quel vivaio di prosperità fu gelato dalla politica del fascismo che privilegiava la grande industria bellica e monopolistica, in un quadro protezionista e autarchico.

Poi però, nel secondo dopoguerra, “con l’avvento della democrazia e con la liberalizzazione degli scambi… il ‘modello brianzolo’, si estende, quasi per gemmazione spontanea a tutta la fascia pedemontana della regione caratterizzata dalla presenza capillare della Chiesa Cattolica e dalla diffusione della piccola proprietà contadina”.

Il segreto dunque del miracolo italiano fu una classe dirigente intelligente e lungimirante (i governi centristi per tutti gli anni Cinquanta tennero fra l’altro in perfetto ordine i conti pubblici) e un’educazione popolare cattolica che faceva perno sulla famiglia, sul valore del lavoro e del sacrificio per la ricerca del bene comune.

Una lezione ancora attualissima visto che – nello sfascio dello stato sociale – sono ancora la famiglia e la Chiesa a permettere la tenuta dei legami sociali e una vita almeno degna. Ma c’è qualcuno oggi che si batte contro questa de-moralizzazione del popolo, che punta sul “capitale uomo”, sulla sua creatività, sulla famiglia e su una forte etica del lavoro?

 

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 7 dicembre 2014

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