Il presepe allestito quest’anno in piazza San Pietro fa discutere. Non pochi, del popolo cristiano, lo trovano “brutto”, intendendo dire, con ciò, che in un presepio con quelle figurazioni stravaganti (o extraterrestri) c’è qualcosa che non va.

Si dirà che è un giudizio soggettivo. Ma “vox populi, vox Dei”. Sostenere – da parte vaticana – che ognuno ha i suoi gusti, non è una risposta accettabile, in questo caso, perché non siamo in una galleria di arte moderna o a una mostra d’avanguardia.

Non si discute il valore artigianale dei manufatti e l’abilità degli autori (che si può ben riconoscere), ma la scelta del Vaticano. Il presepio della piazza San Pietro è in un contesto religioso, ha lo scopo di richiamare la venerazione dei fedeli per la nascita del Redentore, dunque deve rispondere a un codice liturgico, deve stare in una tradizione iconografica cristiana che per secoli – da Giotto ai popolari presepi napoletani – ha sempre reso riconoscibile, al popolo, il racconto evangelico del Natale di Gesù. E in questo caso non è affatto chiaro.

In contesti diversi questa rappresentazione può avere il suo valore, ma in una collocazione natalizia, davanti a San Pietro, appare fuori luogo. Non si può sconcertare i fedeli con una “arte d’avanguardia” che poi, in realtà, è degli anni Settanta. Forse l’attuale Vaticano predilige una rappresentazione che data agli anni Settanta, perché quella è esattamente la collocazione ideologica della Chiesa attuale.

Erano gli anni disastrosi del postconcilio, quando il cattoprogressisimoimperversava e voleva sostituire la dottrina e il pensiero cattolico con sociologismi rimasticati presi a prestito dal pensiero marxista. L’ossessione della modernità produsse anche abusi liturgici surreali, ma soprattutto voleva archiviare la tradizione e quella grande bellezza che era fiorita in due millenni nell’alveo della Chiesa. Una delle caratteristiche del cattoprogressismo fu proprio la negazione del senso estetico.

Con Giovanni Paolo II e poi con Benedetto XVI la Chiesa ritrovò se stessa, la sua tradizione e il suo senso estetico, anzitutto nella liturgia, di pari passo con la dottrina.

Papa Bergoglio, ideologicamente, si è formato nell’America Latina degli anni Sessanta e Settanta e si è sempre caratterizzato per un approccio sociologico alla realtà. Non si ricorda nulla – di questi otto anni di pontificato – che manifesti una sua particolare sensibilità estetica o artistica. Anzi.

Memorabile fu l’episodio del “Gran concerto di musica classica dell’Anno della Fede”, nell’Aula Nervi, il 22 giugno 2013. Il Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione aveva organizzato questo “grande evento”, in cui l’Orchestra sinfonica della Rai e il Coro dell’Accademia di Santa Cecilia avrebbero eseguito la Nona sinfonia di Beethoven, nell’ambito dell’Anno della Fede voluto da Benedetto XVI.

Tutto era pronto: grande folla, telecamere, al centro la poltrona per il Papa, ma all’ultimo momento l’arcivescovo Fisichella, presidente del Pontificio consiglio, intervenne e comunicò che papa Bergoglio non sarebbe venuto perché aveva da fare. Fu subito chiaro che si sentiva estraneo a quell’evento.

Anche le “immagini” che hanno segnato le tappe del suo pontificato hanno più a che fare con l’ideologia che con l’arte e l’estetica cristiana.

Basti pensare alla “terribile” statua rossa di Lutero che fu posta nell’Aula Nervi nell’ottobre 2016 o al discusso omaggio di Evo Morales che fu immortalato fra le mani e al collo di Bergoglio: falce e martello con crocifisso annesso. O alle statuette, tipo idoli, del recente Sinodo amazzonico. Figure certamente d’impatto dal punto di vista ideologico, ma non certo sul piano estetico e dell’arte cristiana.

Eppure, nei suoi duemila anni di storia, la Chiesa ha riempito il mondo di bellezza, di opere d’arte di ogni genere. Perché – come insegna san Tommaso d’Aquino“la bellezza è lo splendore della verità”.

L’arte cristiana nasce proprio dal Natale, quando la Bellezza e la Verità eterne si fanno carne. Da quando Dio si è fatto uomo, l’essere umano è stato esaltato infinitamente. Ecco perché l’arte cristiana da duemila anni ha superato la proibizione biblica della raffigurazione e celebra artisticamente l’Uomo-Dio e lo splendore dell’uomo e del creato.

Dice il teologo russo Pavel Edvokimov: “ciò che è bello è la presenza di Dio fra gli uomini”. Con la scristianizzazione degli ultimi secoli, dall’inizio del Novecento, lo smarrimento esistenziale ha prodotto anche la dissoluzione della “forma” nell’arte e quindi del “personaggio uomo” e della bellezza. Le avanguardie si sono dedicate con particolare accanimento a questa demolizione.

“Distruggere nella letteratura l’io. L’uomo… non offre assolutamente più interesse alcuno”, proclamava nel 1912 Filippo Tommaso Marinetti. E Franz Marc – che insieme a Vassilij Kandinskij fondò nel 1911 il Blaue Reiter – denunciava “l’uomo come ‘brutto’” e alla fine “ripugnanti” tutte le cose create: “solo ora d’improvviso ho pienamente coscienza della bruttezza della natura, della sua impurità”.

Una deriva gnostica che caratterizzerà tutto il Novecento. Spazzando via la forma, si spazza via la bellezza. “L’abolizione della bellezza” osserva Schuon “è la fine dell’intelligibilità del mondo”.

E’ l’esatta antitesi del realismo del cristianesimo. Il problema del presepio di piazza San Pietro dunque non sta nel suo valore artigianale-artistico, ma nel fatto che le figure umane sembrano automi, astrazioni simboliche, non fanno riconoscere i personaggi del racconto evangelico, ma sembrano la celebrazione del transumanesimo.

Mentre il presepio, come lo concepì san Francesco, è il realistico racconto della concretissima nascita di Dio in forma umana, è l’esaltazione divina della carne umana e la glorificazione delle umili persone e delle  povere cose create della vita quotidiana, compresa una stalla, la paglia, una mangiatoia il bue e l’asino. Non sono simboli, ma realtà concrete illuminate dall’infinito amore di Dio fatto uomo.

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Antonio Socci

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Da “Libero”, 13 dicembre 2020