Ecco dunque la “pistola fumante”.
La prova documentaria, nero su bianco, sta in un appunto che Paolo VI, in data 15 novembre 1965, fece pervenire a monsignor Felici, Segretario generale del Concilio.
In tale “Annotatio” Montini invita a rispettare “gli impegni del Concilio” evitando condanne esplicite del comunismo.
In realtà il Concilio Vaticano II non aveva preso (né poteva prendere) simili impegni di autocensura con nessun potere mondano.
Paolo VI si riferiva però a quelli sottoscritti dal Vaticano con il Patriarcato ortodosso di Mosca, ossia con il Cremlino e il Kgb, per legare le mani al Concilio.
I suddetti “impegni” si trovano elencati esplicitamente dal Papa stesso nel suo appunto: “di non entrare in temi ‘politici’, di non pronunciare anatemi, di non parlare di comunismo (1962)”.
E’ la prova documentaria, fornita dallo stesso Papa Montini, del “patto” tra Vaticano e Mosca per imbavagliare il Concilio e impedire ogni condanna esplicita e solenne del marxismo e dei regimi comunisti.
Perché in realtà il Concilio entrò – eccome! – “in temi politici”. Tutti eccetto il comunismo.

Spaziò dal ruolo dei partiti al capitalismo, dal razzismo al colonialismo, dalla schiavitù alla censura, dallo sciopero all’analfabetismo, dalle ineguaglianze sociali al Terzo mondo, dalla fame alla guerra, dalla povertà al commercio, dai diritti dell’uomo al disarmo, dal dispotismo all’economia, dall’emigrazione al latifondo, dal problema operaio al liberalismo.
Solo del comunismo non si occupò, perché c’era il veto di Mosca accettato da Roncalli in cambio (si noti bene!) di due osservatori ortodossi al Concilio, ben selezionati dal Kgb.
Nelle centinaia di pagine dei documenti conciliari non si trovano neanche i vocaboli “comunismo” e “marxismo” (di cui si erano tanto occupati i pontefici fino ad allora).
Fu una svolta storica. La nota di Paolo VI richiama la data 1962 perché proprio di quell’anno è l’accordo, stipulato a Metz, fra il cardinale Tisserant (per conto di Giovanni XXIII) e il metropolita Nicodemo per conto del Patriarcato di Mosca (ossia del Cremlino).
Abbiamo ricostruito le circostanze di tale accordo nell’articolo dell’11 ottobre 2006 (“Quell’empio patto tra il Kgb e il Papa buono”).
Abbiamo visto le conseguenze di quella svolta devastante per la Chiesa, come dimostra anche l’attuale “caso Polonia” (se il Vaticano si accordava così col Cremlino al punto da imbavagliare il Concilio, perché dei semplici preti inermi, oltrecortina, non dovevano cedere alla “collaborazione” con i loro regimi ?).
Ora siamo in grado di ricostruire nel dettaglio (con documenti che fanno impressione) come fu imposto il “bavaglio” al Concilio e con quali irregolarità fu violata la legalità conciliare.
L’appunto di Paolo VI, citato sopra, si trova sepolto in un mare immenso di documenti del Concilio Vaticano II.
Siamo andati ad indagare (con l’aiuto di un bravissimo seminarista sardo che voglio qui ringraziare) fra questi documenti d’archivio, raccolti in grossi volumi, per capire come fu impedito ai padri conciliari di votare una condanna esplicita e solenne del marxismo e dei regimi comunisti.
Questa è la storia ricca di sorprese.

Dunque siamo nell’estate del 1965, alla vigilia dell’ultima sessione del Concilio, la quarta. Il fronte progressista, sebbene numericamente non sia maggioranza, ha dalla sua parte Paolo VI e questo gli permette di dettar legge.
Il 25 luglio 1965, per esempio, il gruppo dei vescovi conservatori, denominato “Coetus”, scrive una lettera al papa dove – in forza del regolamento – chiede di poter comunicare in aula, prima del voto, un rapporto contrario ad alcuni schemi.
Il Coetus rappresenta molti Padri conciliari.
L’11 agosto 1965 arriva una sorprendente risposta. Il Segretario di Stato, cardinale Cicognani, dichiara che Paolo VI ha manifestato disappunto per l’esistenza di un “gruppo internazionale di Padri che seguono la medesima opinione in materia teologica e pastorale”.
Papa Montini ritiene che l’esistenza di un “gruppo particolare in seno al Concilio” possa pregiudicare la libertà dei Padri e accentuare le divisioni.
Nulla però dice, in tale risposta, dell’esistenza del gruppo di Alleanza Europea. Ma soprattutto il papa sembra ignorare l’articolo 57. 3 del regolamento interno dove si legge: “È fortemente auspicabile che i Padri conciliari che intendono sostenere degli argomenti simili, si raggruppino e designino uno di loro per prendere la parola a nome di tutti”.
La risposta di Cicognani dimostra una cosa: che papa Montini è ostile alla corrente conservatrice che potrebbe portare su posizioni fedeli alla Tradizione la maggioranza del Concilio.
Quella risposta del papa probabilmente era dovuta al fatto che i “progressisti” – nelle persone dei cardinali Döpfner e Suenens – erano andati a lamentarsi con lui per la forza dei conservatori, che andavano stoppati.
Questi ultimi il 20 agosto 1965 scrivono una lettera di risposta al papa, ma non riceveranno mai alcuna replica.
In questo clima – non proprio sereno, né regolare, con forzature che erano cominciate fin dall’inizio del Concilio – si apre la quarta e ultima sessione del Concilio (dal 14 settembre 1965 all’8 dicembre 1965).

Già il 14 settembre viene distribuito un testo sul problema dell’ateismo che fa parte dello schema sulla Chiesa nel mondo contemporaneo (che diventerà la “Gaudium et spes”).
E’ ovvio aspettarsi che tale testo parli del comunismo.
Il Vaticano II, ricordiamolo, è un Concilio pastorale, non dogmatico. Si deve occupare cioè dei problemi della Chiesa nel mondo moderno. Siamo nei primi anni Sessanta ed è in piena consumazione la tragedia del comunismo.
E’ in corso il più immane martirio di cristiani della storia della Chiesa (centinaia di milioni di vittime). Tanti preti e vescovi sono nelle carceri comuniste.
L’Urss si è divorato tutta l’Europa dell’Est, ha appena schiacciato la rivolta d’Ungheria e la bandiera rossa ora sventola perfino a Cuba.
L’immensa Cina è stata conquistata dai comunisti di Mao, l’Indocina è in fiamme e in Europa occidentale i partiti comunisti sono fortissimi (in Italia hanno letteralmente sradicato la fede cristiana da intere zone del Paese). E’ la più feroce e radicale sfida al cristianesimo che si sia mai vista in duemila anni.
Eppure – sorprendentemente – il testo sull’ateismo distribuito il 14 settembre 1965 non parla esplicitamente del comunismo.
Il 15 settembre si apre il dibattito sullo schema relativo alla libertà religiosa.
Il gruppo Coetus chiede di poter leggere un rapporto su questo tema (in base all’art. 33.7 del regolamento), ma i moderatori rispondono picche.
Il 29 settembre monsignor Carli presenta una lettera di 26 vescovi e chiede altre firme per un emendamento che condanni espressamente il comunismo, definito “il più grave problema pastorale del nostro tempo”.
Vi si legge che bisogna affermare “con parole chiare” la “radicale opposizione” fra la religione cristiana e il comunismo (sia come sistema socio-economico che come ideologia).
Bisogna “colmare questa lacuna” del testo sull’ateismo “affinché il popolo cristiano non subisca danni più ingenti; il Concilio non può tacere su un tema così grave senza provocare un grande scandalo fra i semplici”.
Sabato 9 ottobre la petizione, che ha raccolto le adesioni di ben 300 Padri conciliari, viene presentata alla Segreteria generale del concilio che, in base al regolamento, deve provvedere a pubblicarla e sottoporla ai Padri per essere votata come emendamento.
Ma questo, incredibilmente, non accade. Il 13 novembre infatti viene presentato in aula il nuovo testo sull’ateismo e nella relazione che lo accompagna non si parla affatto della petizione che chiede la condanna del comunismo.
Quel giorno stesso monsignor Carli presenta subito un duro ricorso indirizzato al Consiglio di presidenza del Concilio. In esso denuncia la violazione di molti articoli del regolamento perché il testo della petizione non è stato presentato in Aula e l’emendamento non è stato messo in votazione.
Il prelato è molto esplicito: “tale modo di procedere è illegale”. Inoltre – afferma Carli – non si comprende com’è che vengono ammessi emendamenti firmati da un solo padre e viene cestinato quello con centinaia di firme: “sembra che il Concilio lo facciano le Commissioni più che i Padri”.

(fine prima puntata)

Lo scandalo della mancata condanna del comunismo (e perfino della mancata sua menzione) al Concilio Vaticano II ha un giorno chiave: il 15 novembre 1965. Momenti concitati in Vaticano.
C’è il terrore che la stampa si accorga del colpo di mano con cui si sta imbavagliando il Concilio, sottraendo irregolarmente al voto dei Padri l’emendamento di condanna del comunismo.
Si succedono riunioni tese e colloqui riservati con papa Montini. Ricostruiamo dunque quelle ore convulse.

Quella mattina – è un lunedì – si riunisce d’urgenza la Commissione. Si decide di rispondere al ricorso di mons. Carli dicendo che era parso “sufficiente includere il comunismo, senza nominarlo, nell’espressione generica di condanna dell’ateismo”.
Questa incredibile risposta viene illustrata, subito dopo, nella Congregazione. Ma mons. Carli si dice insoddisfatto e conferma il suo ricorso.
Secondo il regolamento a questo punto si dovrebbe riunire il Consiglio di Presidenza per esaminare tale ricorso, ma questo – osserva monsignor Felici in una nota – “potrebbe avere riflesso sulla stampa, attesa soprattutto la delicatezza della materia”.
C’è anche un altro motivo per cui – in barba al Regolamento – si evita di riunire il Consiglio di Presidenza. Lo confessa il cardinale Tisserant, che è il Presidente, durante una riunione riservata col papa il 26 novembre: “il cardinale Tisserant” si legge nel verbale di quella riunione “dice di non aver convocato il Consiglio di Presidenza perché vi è il Cardinale Wyszinski molto fermo nella sua idea contro il comunismo!”.
Dunque, per tenere il primate polacco all’oscuro dell’operazione in corso si evita di rispettare il Regolamento e si rimette tutto nelle mani del Papa. Il quale nel pomeriggio di lunedì 15 risponde a monsignor Felici con un appunto in cui si chiede se il ricorso di Carli “si conserva o si ritira” e se “è stata illegale la condotta della Commissione mista”. Poi Montini manifesta il suo vero timore: che “la tesi dei ricorrenti” sia “portata a conoscenza dei Padri con le relative osservazioni”. Ciò, insinua, non sarebbe “prudente”. Infatti, se il ricorso sarà respinto “il Concilio sembra aver rifiutato la condanna del comunismo già condannato. Se approva: quale sorte dei cattolici nei Paesi comunisti?”.

Quest’ultimo timore è un evidente pretesto, infatti il rappresentante più autorevole dei cattolici dell’Est, il primate polacco Wyszinski, come si è visto, è stato tenuto del tutto all’oscuro.
Il vero timore di Montini è ben altro e lo annota subito dopo: “(tale condanna del comunismo, ndr) è coerente con gli impegni del Concilio di non entrare in temi ‘politici’, di non pronunciare anatemi, di non parlare di comunismo (1962)?”.

Il messaggio del Papa è chiaro: 1) bisogna evitare che scoppi un caso, sui giornali, se c’è stata un’illegalità, e 2) soprattutto bisogna che si eviti una discussione e una condanna del comunismo perché il Vaticano ha preso impegni con Mosca di tacere.

Il giorno dopo, 16 novembre, monsignor Felici invia al Papa una nota per rispondere alle sue domande. Innanzitutto lo informa che la petizione di condanna del comunismo “fu presentata entro i limiti di tempo fissati” (contrariamente a quanto era stato detto prima, per silenziare quella mozione).
“Poiché la richiesta dei più di 300 Padri era formulata in termini concreti, la Commissione aveva il dovere di riportarla nei suoi termini e dare motivazione del suo atteggiamento in proposito. Questo non può dirsi sia stato fatto nella forma dovuta”.
Felici informa inoltre il Papa di aver chiamato, in mattinata, mons. Carli per spiegargli il pensiero del Pontefice.
Carli “dopo aver deplorato la irregolarità procedurale si è detto disposto a ritirare il ricorso e di stare a quanto il Papa deciderà” aggiungendo però che “attese le esigenze di un orientamento dottrinale e pratico per il nostro clero e popolo cristiano, ed attese altresì le false interpretazioni che potrebbero sorgere da un silenzio assoluto da parte del Concilio, è opportuno che si dica qualcosa in merito al problema del comunismo in quanto tale”.

A questo punto dunque la decisione è tutta nelle mani di Paolo VI. Il 23 e 24 novembre sui giornali esce l’indiscrezione secondo cui è stata bloccata da mons. Glorieux, segretario della commissione che si occupa dell’ateismo, la lettera-petizione contro il comunismo firmata da centinaia di Padri.
Il cardinale Tisserant scrive dunque al papa perché non dia peso a qualche isolato articolo e tenga fede al “patto” con Mosca.
Tisserant è colui che nel 1962, per conto di Giovanni XXIII, firmò quell’accordo. Secondo la testimonianza successiva del suo segretario, mons. Roche: “egli ricevette degli ordini formali sia per firmare l’accordo che per sorvegliarne durante il Concilio l’esatta esecuzione”.
Tisserant – che non a caso presiede il Concilio – scrive dunque a Paolo VI e gli ricorda che Giovanni XXIII “annunziò” che il Vaticano II non doveva “comportare condanne, ciò che Vostra Santità confermò… Gli anatemi non hanno mai covertito nessuno… Come io dissi già a Vostra Santità, una condanna conciliare del comunismo sarebbe considerata dai più come una mossa di carattere politico, ciò che porterebbe un danno immenso all’autorità del Concilio e della stessa Chiesa”.

Queste righe di chi presiedeva il Concilio segnano una rottura assoluta con duemila anni di storia della Chiesa.
Sempre infatti la Chiesa ha ritenuto suo dovere condannare il Male e l’errore.
Il comunismo è un “flagello satanico” fra i peggiori mai verificatisi, secondo i pontefici precedenti. Mentre adesso, di colpo, si pretende di non condannarlo più. Oltretutto non è vero che il Concilio non ha lanciato anatemi. Per esempio contro la “guerra totale” ha emesso “con fermezza e senza esitazione” una “condanna” assoluta (Gaudium et spes, 80).
Perché per il comunismo no?
Dal punto di vista della teologia cattolica il comunismo è di gran lunga peggiore della guerra, non solo perché implica in sé guerra, genocidi e persecuzioni, ma soprattutto perché è un’esplicita guerra contro Dio che provoca la perdizione di moltitudini (secondo S. Agostino e S. Tommaso una sola anima ha un valore più grande dell’intero cosmo). Dunque la tesi di Tisserant appare un totale tradimento della tradizione cattolica.
Purtroppo risulterà però vincente nella riunione riservatissima che si terrà – su questo problema – il 26 novembre, alle ore 9, nello studio del Papa. Presiede Paolo VI. Presenti i cardinali Tisserant e Cicognani, mons. Garrone e mons. Felici. Quest’ultimo espone il problema. Innanzitutto denuncia “l’irregolarità” commessa. Ma la si chiude “assolvendo” mons. Gloriueux come se avesse fatto solo un innocente “errore materiale” da riconoscere in sede di Relazione.
“Quanto alla questione di merito”, annota Felici “dopo breve discussione, si è d’accordo di non rinnovare espressamente la condanna del comunismo, ma nella Relazione dire che gli errori del comunismo sono già condannati nel testo, come del resto sono condannati nel magistero della Chiesa; e se si evita di entrare esplicitamente ora nella questione è per evitare interpretazioni politiche; nel testo (in nota) poi richiamare le Encicliche, ove il comunismo stesso è apertamente denunziato e condannato”.
Con questo escamotage Paolo VI evita che il Concilio emetta una condanna esplicita del comunismo.
Il 4 dicembre Tisserant scrive a Glorieux per confortarlo e rassicurarlo: “la vostra responsabilità non vi sarà fatta gravare troppo dagli storici del Concilio”.
Evidentemente il cardinale Tisserant non pensava che si deve rispondere dei nostri atti a Dio, ma “agli storici del Concilio”, cioè ai mass media.
In effetti sapeva il fatto suo. Proprio in quei mesi erano iniziate sui media gli attacchi contro il defunto Pio XII accusato di non aver condannato il nazismo (cosa non vera: l’aveva condannato).
Ma allo stesso tempo si lodava il Concilio che non aveva emanato condanne del comunismo il quale stava consumando nuovi genocidi (in Cina: l’orrenda rivoluzione culturale, poi in Cambogia), nuove guerre (Cina-Russia, Indocina, Afghanistan) e nuove repressioni all’Est (oltre a infiammare con il ’68 l’Occidente: l’Italia conobbe un ventennio di terrorismo rosso).

Il 4 dicembre 1965 Paolo VI presiede una cerimonia ecumenica nella Basilica di San Paolo fuori le mura dove ringrazia gli osservatori non cattolici venuti al Concilio.
La delegazione russa può ripartire soddisfatta alla volta di Mosca. Nel discorso di chiusura del Concilio, il 7 dicembre, Paolo VI proclama testualmente: “La religione del Dio che si è fatto Uomo s’è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio”.
Fino ad allora questa “anti-religione” era sempre stata considerata dalla Chiesa il connotato del Maligno (il serpente tentatore nella Genesi disse ad Adamo di mangiare la mela per “diventare come Dio”).
Ma al Concilio – dice compiaciuto Paolo VI – con quella anti-religione non c’è stato “né scontro, né lotta, né anatema”, ma “incontro”.
(seconda puntata – fine)

Fonte: © libero – 21 e 23 gennaio 2007

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