Paul Auster scrisse, nel 1977, sulla New York Review of Books: “Negli ultimi anni nessun poeta francese ha ricevuto più attenzione critica ed elogi di Edmond Jabès… A partire dal primo volume de Le Livre des Questions, nel 1963, Jabès ha creato un nuovo e misterioso modello di opera letteraria, sbalorditiva, di difficile classificazione. I suoi scritti hanno un posto tanto centrale che Derrida si è esposto a dire che ‘negli ultimi anni nulla è stato scritto in Francia che non abbia il suo precedente nei libri di Jabès’”.

LA FERITA

Derrida scriveva: “Nel Livre des questions (…) viene esumata una poderosa e antica radice, e messa a nudo su di essa una ferita senza età (perché Jabès ci insegna che le radici parlano, che le parole vogliono germogliare e che il discorso poetico [prende avvio] da una ferita): si tratta di una certa tradizione ebraica come nascita e passione della scrittura. Passione dellascrittura e resistenza della lettera, in cui è difficile distinguere se il soggettoè l’Ebreo o la Lettera stessa. Forse radice comune di un popolo e della scrittura”. Destino di un popolo “uscito dal libro”.

Così iniziava un saggio di Derrida su Jabès che peraltro è stato commentato anche da altri importanti pensatori come Emmanuel Lévinas e Maurice Blanchot.

Jabès, preziosa voce dell’ebraismo, è uno dei più grandi poeti di lingua francese del Novecento e – si legge nelle notizie biografiche – “fu uno dei quattro scrittori, con Jean-Paul Sartre, Albert Camus,  e Claude Lévi-Strauss, a presentare le proprie opere all’Esposizione Universale di Montrèal”.

In Italia è stato studiato da importanti lettori come Gianni Scalia, Mario Luzi, Massimo Cacciari e Antonio Prete, ma è poco conosciuto. Eppure nella quarta di copertina del suo “Il libro del dialogo” (Manni) si legge: “di nazionalità italiana”.

In effetti Edmond Jabès nasce al Cairo, nel 1912, da genitori ebrei italiani. Lì riceve un’educazione francese, inevitabilmente influenzata dall’ambiante arabo. Frequentò gli ambienti dell’antifascismo italiano all’estero e iniziò a pubblicare le prime opere in francese. Dopo la crisi di Suez del 1956 l’Egitto espulse la popolazione di origine ebraica e lui andò in Francia ottenendone la cittadinanza nel 1967. Ha avuto importanti riconoscimenti ed è morto a Parigi nel 1991.

L’ASSENZA DI DIO

Tutta la sua opera è dialogo e ascolto. Il suo discorso è frammentario. Scrive Antonio Prete: “Presenza costante nell’opera di Jabès è il Libro inteso come libro sacro la cui scrittura è incompiuta”.

E poi il deserto: “l’esperienza che Jabès fece nella sua giovinezza, si trasforma via via in esperienza di scrittura: ecco i grandi silenzi, i cieli di pietra, la sabbia, le impronte del cammino cancellate dal vento, ecco le voci che vengono da lontananze inattingibili, i miraggi,  il passaggio del nomade e la sua ospitalità”.

Jabès ci lascia meditare sulla parola e sul silenzio, una riflessione che è preziosa specialmente oggi: “In un mondo come l’attuale in cui la parola è pronunciata in modo sempre più altisonante, declamatorio, più si parla basso, più si è di disturbo. Sta lì la vera sovversione. Allo stesso modo è sovversiva la domanda. Infatti chi interroga non urla mai, perché è insicuro… La domanda è sempre al di sotto dell’urlo… La parola del libro è sovversiva: perché è una parola dal silenzio”.

La sua poesia è un esodo nello spaesamento del deserto, dove “il minimo chiarore è sospetto d’infinito”. La ferita è un luogo vuoto per l’assenza di Dio. E da lì sgorga la parola.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 21 ottobre 2023

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