LA FINE DELL’IMPERO ROMANO E IL NOSTRO TEMPO. C’E’ UNA SPERANZA…
“Il primo obiettivo di ogni totalitarismo è annientare la memoria”, scrive Roger Scruton. La memoria che abbiamo di noi stessi, come popolo, dovrebbe essere custodita e alimentata, ma – scrive il poeta – “tutto cospira a tacere di noi”. Le nostre radici, molto antiche, sono ignorate.
NASCITA DELL’ITALIA
Valerio M. Manfredi e Luigi Malnati, in un loro libro recente, citando Catone e Servio, ricordano che “quasi tutta l’Italia era stata un tempo sotto il dominio degli Etruschi”. Tuttavia pure altri popoli italici convivevano nella penisola e non c’era ancora la coscienza di un destino comune, che, secondo alcuni storici, si può già cogliere, grazie a Roma, nel periodo della Seconda guerra punica (218-202 a.C.).
Il pericolo rappresentato da Cartagine e l’invasione della penisola da parte di Annibale suscitò quella consapevolezza di un comune destino che indusse tutti a stringersi a Roma. Gioacchino Volpe ha scritto: “Roma, insieme con i popoli italici (…) diede la prima impronta comune alle genti tutte della penisola (…) e fu per esse un grande punto di attrazione e di convergenza”. Si ebbe una progressiva unificazione giuridica, linguistica, culturale e politica. Ma la civiltà romana della tarda Repubblica recepì e assimilò anche il contributo delle diverse popolazioni italiche.
Massimo Pallottino lo fa capire ricordando i nomi dei principali letterati a partire dal III secolo a.C.: Livio Andronico è di Taranto, Gneo Nevio è campano, Plauto è umbro, Ennio è salentino, Catone il Censore è di Tusculum, Varrone di Rieti, Cicerone di Arpino, Catullo di Verona, Sallustio di Amiternum, Virgilio di Mantova, Orazio di Venosa, Properzio di Assisi, Ovidio di Sulmona, Tito Livio di Padova, Velleio Patercolo e Stazio sono campani, Persio è etrusco (come Mecenate) e i due Plinio di Como.
Sempre Pallottino conclude: “Con Augusto vediamo finalmente un’Italia unificata e totalmente pacificata dallo stretto di Messina alle Alpi”. Attorno a questa Italia si costruisce, dall’Inghilterra al Golfo Persico, una civiltà che fiorirà per secoli. A spazzarla via saranno i barbari – Vandali e altre tribù – che il 31 dicembre del 406 d.C. attraversano il Reno e invadono l’Impero romano.
Un grande intellettuale come san Girolamo nel 409 scrive da Betlemme: “Popolazioni senza numero e ferocissime hanno occupato tutte quante le Gallie”. Descrive distruzioni e carneficine. Nell’agosto del 410 Alarico arriva a Roma e – per la prima volta in ottocento anni – la devasta. Tutti furono sgomenti. Si ebbe la sensazione della fine di una civiltà millenaria.
Sempre san Girolamo scrive: “mi giunse in Palestina la notizia della presa di Roma per mano di Alarico e della barbarica devastazione dell’Occidente; rimasi istupidito, e nulla più feci se non piangere (…). Il più risplendente lume si è spento; il capo del mondo è tronco e nella rovina di una sola città è perito tutto l’impero”.
LA FINE?
Effettivamente sarebbe stata la fine di Roma e della sua civiltà, affogata nel sangue e nelle distruzioni. Ma non fu così. Lo storico Roberto De Mattei, a cui devo le citazioni di san Girolamo (nell’immagine), osserva: “Mentre l’astro di Roma si spegneva una nuova luce si accendeva: era la Roma cristiana, la Roma degli Apostoli Pietro e Paolo, la Roma che a differenza di quella pagana, avrebbe sfidato i secoli e i millenni. Il mondo moderno sembra seguire il percorso autodistruttivo dell’Impero romano; la Chiesa di Roma è destinata ad affermarsi sulle rovine del mondo moderno, come già accadde dopo il V secolo”.
Antonio Socci
Da “Libero”, 28 settembre 2024
(Nell’immagine “La distruzione dell’Impero romano” di Thomas Cole)