Un giovanissimo soldato russo scende da un carro armato e, piangendo, chiede un bicchiere d’acqua a una donna ucraina. Le donne hanno qualcosa di misterioso nell’anima. Lei adesso non vede davanti a sé un invasore, ma un povero figlio. Così gli dà da bere e qualcosa da mangiare. Poi gli offre il suo cellulare per parlare con la mamma…

Edith Bruck, una delle ultime testimoni della Shoah, ha voluto ricordare questo episodio in una bellissima intervista ad “Avvenire” l’8 marzo ( QUI ). È la grandezza delle donne. La logica amico/nemico non è tutto: c’è qualcosa di più grande nell’anima umana che di colpo la può spazzar via.

NON ODIARE

Infatti Edith Bruck raccomanda “di non coltivare l’odio, la vendetta, di non trasmettere mai questo. Nel ’45 dopo la liberazione” racconta “io e mia sorella Golde, uniche sopravvissute alla Shoah di tutta la nostra numerosa famiglia, riuscimmo a ritornare a casa. Ricordo gli americani e i soldati nazisti ungheresi che scappavano, braccati, si nascondevano… Ricordo cinque di questi soldati che ci implorarono di aiutarli, potevamo denunciarli, io e mia sorella ci guardammo negli occhi, li nascondemmo. Noi abbiamo dato loro rifugio”.

L’intervistatrice chiede: “Per lei che ha visto negli occhi Mengele quale può essere la pace?” Risposta: “La pace ha un suo segreto: non odiare mai nessuno. Se si vuole vivere non si deve mai odiare”.

Sono le stesse parole che l’anziana madre russa, che aveva visto uccidere davanti a sé due figli, disse a don Paolo Pezzi quando le chiese cosa pensava di Stalin: Cosa penso? Guardi che io l’ho perdonato tanti anni fa, perché se non si perdona non si vive più” (ne ho scritto su Libero l’11 marzo QUI  ).

VEDERE DIO

Di recente Lucio Brunelli ha raccontato la storia di Cejka Stojka, una rom austriaca di fede cattolica che da bambina conobbe l’inferno dei lager nazisti ( QUI ). Una donna straordinaria. Il giornalista la incontrò a San Pietro nel giugno 2012 a un’udienza di Benedetto XVI proprio per il popolo nomade.

Alle domande di Brunelli lei mostrò il suo braccio: “Avevo 9 anni, ero una bambina, venni marchiata come uno dei cavalli che mio padre vendeva alle fiere”.

Morirono nei lager il padre e decine di parenti. Lei sopravvisse con la mamma e alcune sorelle. Raccontò che “la collina dei morti – una catasta di migliaia di cadaveri – era diventata per lei l’unico riparo dal vento gelido dell’inverno”. Stando lì “rivoltavamo i morti in modo che non giacessero capovolti e con la faccia non guardassero in terra, ma in alto, verso Dio”.

Lei e la mamma a volte dovevano cibarsi di terra, delle foglie e della stoffa dei vestiti dei morti. “Quando arrivarono i soldati britannici” scrive Brunelli “non riuscivano a credere ai loro occhi… uno scenario così neanche all’inferno immaginavano di vederlo. ‘Molti piangevano e noi – racconta Cejka – li dovevamo consolare’”.

Alcuni di loro pensarono di dare la possibilità ai superstiti di vendicarsi sui carnefici. Uno di loro aveva quasi spezzato una mano alla mamma di Cejka, ma quando glielo portarono per colpirlo la bimba disse: “ ‘Non ci riesco. Mi dispiace. Non ci riesco’… Ho visto quel soldato tedesco davanti a me. Era giovane. Aveva forse 28 o 30 anni, ed era assolutamente stupito che non lo colpissi. Posso solo immaginare che in quel momento abbia visto Domineddio”.

Quella bimba poteva fargli sparare dal soldato inglese, ma non lo fece: “può suonare strano ma io ho provato compassione anche per i nazisti. Erano esseri umani pure loro”.

Se n’erano dimenticati. La compassione di Cejka glielo fece capire. C’è da piangere a da riflettere.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 18 marzo 2022

(Nell’immagine: il braccio di Cejka Stojka con il “marchio” del lager)

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