PIER PAOLO PASOLINI A UN “GIOVANE FASCISTA” DEL 1975: “DIFENDI, CONSERVA, PREGA!”, COME “UN SANTO O UN SOLDATO”
“Madre de’ Santi, immagine/ della città superna;/ del Sangue incorruttibile/ conservatrice eterna;/ tu che, da tanti secoli,/ soffri, combatti e preghi,/ che le tue tende spieghi/ dall’uno all’altro mar;/ campo di quei che sperano;/ Chiesa del Dio vivente…”.
Così inizia la Pentecoste di Alessandro Manzoni, l’ultimo dei suoi Inni sacri. Non so se è già stato notato – probabilmente sì e io arrivo per ultimo – ma Pier Paolo Pasolini doveva avere in testa il verso manzoniano “soffri, combatti e preghi”, quando ha scritto “Difendi, conserva, prega!”, il verso chiave della sua famosa poesia “Saluto e augurio”, pubblicata esattamente 50 anni fa, nel marzo 1975, su “Almanacco dello Specchio”, prima di essere raccolta nel volume La nuova gioventù, l’ultimo libro che pubblicò in vita, che richiamava la raccolta del 1954, La meglio gioventù.
Si tratta di una poesia molto particolare e assai discussa, perché è probabilmente la sua ultima poesia (“è quasi sicuro che questa/ è la mia ultima poesia in friulano”), perché c’è un terribile presentimento di morte (“voglio farti un discorso/ che sembra un testamento”) e il poeta fu ucciso otto mesi dopo.
Ma discussa soprattutto per il contenuto. Inizia così: “voglio parlare a un fascista/ prima che io o lui siamo troppo lontani./ È un fascista giovane,/ avrà ventuno, ventidue anni…”. Pasolini era abituato allo scandalo, ma sapeva che in quegli anni poche cose potevano creare più scandalo di questo rivolgersi a un “giovane fascista”.
Certo, il poeta stabilisce subito le distanze (“ricordati, io non mi faccio illusioni/ su di te: io so, io so bene,/ che tu non hai, e non vuoi averlo,/ un cuore libero, e non puoi essere sincero:/ ma anche se sei un morto, io ti parlerò”).
Però il seguito della poesia, bellissima, è tutt’altro che ostile: “difendi i paletti di gelso, di ontano…/ Muori di amore per le vigne./ per i fichi negli orti. I ceppi, gli stecchi./Per il capo tosato dei tuoi compagni./ Difendi i campi tra il paese/ e la campagna, con le loro pannocchie,/ le vasche di letame abbandonate. Difendi il prato/ tra l’ultima casa del paese e la roggia./ I casali assomigliano a Chiese:/ godi di questa idea, tienila nel cuore./ La confidenza col sole e con la pioggia,/lo sai, è sapienza santa./ Difendi, conserva, prega!”.
E poi ripete questa esortazione e continua a dare alla parola “patria”, che non pronuncia, una connotazione fisica, fatta di luoghi amati, di cose, di vissuto, di paesi e di campagne. Sembra che abbia davvero in mente un inno sacro: “ama la carne della mamma nel figlio./ Dentro il nostro mondo, dì/ di non essere borghese, ma un santo/ o un soldato: un santo senza ignoranza,/ un soldato senza violenza./ Porta con mani di santo o soldato/ l’intimità col Re, Destra divina/ che è dentro di noi, nel sonno”.
Il finale suscita diverse domande: “Prenditi/ tu, sulle spalle, questo fardello./ Io non posso, nessuno ne capirebbe/ lo scandalo…/Prenditi tu questo peso, ragazzo che mi odii:/portalo tu. Risplende nel cuore. E io camminerò/leggero, andando avanti…”.
Questo inno va letto con l’altro “testamento”, il discorso che Pasolini non poté pronunciare (era stato ucciso due giorni prima) al congresso del Partito radicale. Che metteva in guardia dal nascente, dilagante “conformismo di sinistra” e, alla fine, diceva: “tale potere si accinge di fatto ad assumere gli intellettuali progressisti come propri chierici. Ed essi hanno già dato a tale invisibile potere una invisibile adesione”.
Antonio Socci
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