QUEL PATTO SCELLERATO FRA KGB E “PAPA BUONO”
Promemoria per il convegno ecclesiale di Verona… Mentre i giornali annunciano che il nostro stupendo papa Benedetto XVI sta per firmare il decreto che permette di celebrare la millenaria liturgia della Chiesa vergognosamente proibita dopo il Concilio dall’inquisizione progressista
Il Cremlino (o il Kgb) si “infiltrò” al Concilio Vaticano II legando le mani alla Chiesa su una questione capitale, con gravi conseguenze per i cattolici negli anni successivi (conseguenze che arrivano fino ad oggi che siamo alla vigilia del convegno ecclesiale di Verona). Non è una spy story, è una vicenda che deve essere ancora raccontata dettagliatamente e compresa. Vediamola.
Giovanni XXIII annuncia il Concilio Vaticano II il 25 gennaio 1959. Inizia la preparazione. Papa Roncalli desidera avere al Concilio la presenza di rappresentanti della Chiesa ortodossa russa. Nel 1961 approfitta di un viaggio in Russia di Ettore Bernabei per far arrivare al metropolita Rodzinski tale richiesta. Naturalmente la Chiesa Ortodossa non può decidere nulla. E’ del tutto controllata dal Cremlino e dal Kgb. Il regime coglie dunque l’occasione per porre una condizione: che il Concilio si astenga dal condannare l’ideologia marxista e i sistemi comunisti.
Il Vaticano spedisce a Mosca il 27 settembre 1961 monsignor Willebrands a dare garanzie e nell’agosto 1962 a Metz, in Francia, il cardinale Tisserant, decano del Sacro Collegio, per conto della Santa Sede, e il metropolita Nicodemo, per conto della Chiesa Ortodossa, stipulano l’accordo: il Concilio non parlerà di comunismo.
Molto tempo dopo fu Romano Amerio a scriverne nel suo volume “Iota unum”, dove, sulla base di testimonianze dirette, precisò che “l’iniziativa dei colloqui fu presa personalmente da Giovanni XXIII dietro suggerimento del card. Montini e che Tisserant ‘ha ricevuto degli ordini formali, tanto per firmare l’accordo che per sorvegliarne l’esatta esecuzione durante il Concilio’ ”.
In effetti durante quell’Assise accadde l’incredibile. Quando fu depositata una petizione, firmata da 450 padri conciliari, nella quale si chiedeva la condanna esplicita e rinnovata del comunismo, anziché essere messa ai voti fu “insabbiata”. La Segreteria del Concilio si nascose dietro incredibili scuse. Fu un’autentica e clamorosa violazione della legalità conciliare.
Ma ancora più grave fu l’impegno sottoscritto dal Vaticano: di fatto, su richiesta di un regime persecutore e sanguinario, per ottenere un piatto di lenticchie (due osservatori russo-ortodossi ben controllati dal Kgb) si accettò di legare le mani al Concilio, di compromettere la libertà morale della Chiesa. Infischiandosene della “Chiesa del silenzio”.
Nel 1938 Pio XI con la Divini Redemptoris aveva definito il comunismo “un flagello satanico”. Scriveva: “il comunismo è intrinsecamente malvagio e nessuno che voglia salvare la civiltà cristiana deve collaborare con esso in qualsiasi impresa”. Era dunque una questione dottrinale, ma anche pastorale. Il Concilio infatti non era di tipo dogmatico, ma pastorale. Dunque per sua natura doveva parlare della Chiesa nel mondo contemporaneo.
Arrivava 50 anni dopo la rivoluzione bolscevica, dopo il più immane macello di cristiani della storia della Chiesa, mentre il comunismo aveva appena divorato mezza Europa (e aveva appena soffocato nel sangue la rivolta d’Ungheria), mentre aveva conquistato la Cina facendo carneficine orrende, mentre era arrivato in Corea, a Cuba – provocando una grave crisi internazionale – e divampava in Vietnam. Perfino l’Italia si era appena salvata da questo “flagello”, ma si era avuta egualmente una lunga scia di sangue (come dimostrano i libri di Gianpaolo Pansa) con un immenso martirio di sacerdoti nel Centro Italia. In questa situazione in cui Kruscev, al potere a Mosca, aveva addirittura rilanciato la persecuzione anticristiana in Russia, mentre tanti vescovi e preti erano in carcere, il Concilio viene imbavagliato, non può occuparsi del comunismo e accade – osserva Amerio – che “negli Atti non se ne trova nemmeno il vocabolo che tanto spesseggiava nei documenti papali sino a quel momento. La grande Assemblea si pronunciò specificatamente sul totalitarismo, sul capitalismo, sul colonialismo, ma celò il suo giudizio sul comunismo dentro il giudizio generico sulle ideologie totalitarie”.
Papa Roncalli nel solenne discorso di apertura, dando implicitamente un pesante giudizio sui predecessori, affermò: “La Chiesa preferisce oggi far uso della medicina della misericordia, invece che dell’arma della severità” e proporre “insegnamenti piuttosto che condanne”. Dunque non più censure e scomuniche per nessuno, solo che nel frattempo, sotto il pontificato del “Papa buono”, si ricominciava a perseguitare ferocemente padre Pio. Ma per il comunismo nessuna condanna. Roncalli aggiunse, nel suo beato ottimismo: “Non già che manchino dottrine fallaci, opinioni e concetti pericolosi (…) ma (…) ormai gli uomini da se stessi sembra siano propensi a condannarli”. A parte il “talento profetico” che qui papa Roncalli dimostra (di lì a poco scoppia il ’68 e il mondo intero si ubriaca di ideologie terrificanti), a prendere alla lettera quelle parole del papa si dedurrebbe che non c’è più bisogno della Chiesa Madre e Maestra, visto che gli uomini sanno camminare “da se stessi”.
Che effetto produsse questa abdicazione, questa decisione di non illuminare i cristiani su cui, di lì a poco, si sarebbe abbattuto il ’68 ? Disastroso. Dieci anni dopo il Concilio, Paolo VI esterna pubblicamente la sua disperata sensazione che la Chiesa stia subendo i colpi dell’ “autodemolizione” e “che da qualche parte sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio”. Ma chi aveva aperto la porta? Ancora Paolo VI dolorosamente confessò: “l’apertura al mondo è diventata una vera e propria invasione del pensiero secolare nella Chiesa. Siamo stati forse troppo deboli ed imprudenti”.
Roncalli aveva tuonato contro i “profeti di sventura” (ce l’aveva con il messaggio della Madonna a Fatima, che metteva in guardia proprio dal comunismo) e fece lui le sue euforiche “profezie” di “una nuova primavera della Chiesa”, “una nuova Pentecoste”. E’ arrivato l’inverno gelido e buio. Pochi anni dopo Paolo VI, anche lui un tempo ottimista, fece questo bilancio: “Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. E’ venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio”.
Proprio dai primi anni Sessanta, Pio XII era stato attaccato, in modo furibondo, perché – a dire dei critici – non avrebbe formulato condanne chiare e pubbliche del nazismo durante la guerra (cosa peraltro non vera). Invece Giovanni XXIII, che pattuì col Cremlino quel “silenzio” sul comunismo, viene esaltato da decenni come grande papa del dialogo.
Eppure il fatto era trapelato. Il 16 gennaio 1963 “France Nouvelle”, organo dei comunisti francesi, ne aveva scritto trionfalmente come un successo del “sistema socialista mondiale”. Il Vaticano – riferiva quel giornale – “ha preso l’impegno che nel Concilio non ci sarebbe stato alcun attacco diretto contro il regime comunista”. E anche il quotidiano cattolico La Croix, il 15 febbraio 1963, informava che erano state “date garanzie” sulla natura “apolitica” del Concilio. Eppure nessuno denunciò il fatto.
Probabilmente è proprio da questo “silenzio” del Concilio che nel mondo cattolico è diventato prevalente un pensiero di tipo non cattolico. E la Chiesa italiana, al convegno di Verona, si troverà ancora alle prese con le conseguenze drammatiche di quell’errore. Cosa concluderne? Si attribuisce a Pio XII una battuta formidabile, fra il serio e il faceto, ma profondamente vera: “La prova che la Chiesa è un’opera divina è che neanche gli ecclesiastici sono riusciti a distruggerla”.
Da “Libero” 11 ottobre 2006
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In questo articolo, uscito nel settembre 2005 sul “Giornale”, preannunciavo che Benedetto XVI avrebbe riportato nella Chiesa la libertà di celebrare la liturgia della tradizione della Chiesa. E ne spiegavo i motivi. Mi sembra particolarmente attuale…
BASTA CON L’INQUISIZIONE PROGRESSISTA ! VIVA LA BELLEZZA !
Non c’è nulla di più intollerante – nella Chiesa – dell’inquisizione progressista. Lo conferma, per l’ennesima volta, l’anatema che dalle colonne del “Manifesto” Adriana Zarri (teologa, o meglio giornalista cattoprogressista) ha scagliato contro Guido Ceronetti, definito “anticonciliare, di tipo lefebvriano” (lui che non è neanche cattolico). Di quale terribile colpa si sarebbe macchiato lo scrittore torinese? Semplice. In una lettera aperta al nuovo Papa, sulla Repubblica, ha chiesto “che sia tolto il sinistro bavaglio soffocatore della voce latina della messa” e sia possibile celebrarla accanto a quella in volgare “imposta da una riforma liturgica distruttiva”. Ceronetti aggiungeva: “Certamente non ignorerete quanto piacque alle autorità comuniste quella riforma conciliare dei riti occidentali; non erano degli stupidi, avevano nella loro bestiale ignoranza del sacro, percepito che si era aperta una falla”.
In effetti il latino era il concreto legame universale che univa i cristiani di tutto il pianeta in un’unica Chiesa guidata da Pietro e in un’unica fede che nessun potere poteva intaccare. Cancellare quella liturgia ha enormemente indebolito i cristiani. La Zarri ieri ha irriso Ceronetti perché il progressismo cattolico italiano fu decisivo nello smantellamento della lingua della Chiesa. Ma è probabile che Benedetto XVI restauri proprio il tesoro dell’antica tradizione liturgica compreso il latino e il gregoriano (lo fa pensare anche il recente incontro del Papa con la fraternità lefebvriana). Anche se i progressisti grideranno al tradimento del Concilio.
In realtà mai il Concilio ha decretato l’improvvisa e ingiustificata messa la bando della lingua sacra con cui la Chiesa per duemila anni ha espresso il suo Credo. Anzi, la distruzione della liturgia latina contraddice proprio l’art. 36 della Costituzione conciliare sulla liturgia. Contraddice la Lettera Apostolica “Sacrificium laudis” di Paolo VI, contraddice la “Veterum sapientia” di Giovanni XXIII (“nessun innovatore ardisca scrivere contro l’uso della lingua latina nei sacri riti”) e contraddice la “Mediator Dei” di Pio XII che riaffermava “l’obbligo incondizionato per il celebrante di usare la lingua latina”. Contraddice insomma tutta la tradizione cattolica.
Ma come fu possibile allora far passare una simile “rivoluzione” contro la volontà della Chiesa? Gianni Baget Bozzo ha osservato: “il ‘partito rivoluzionario’, cioè il partito intellettuale si è impadronito della gestione della liturgia…la rivoluzione moderna non nasce dal popolo, è sempre il colpo di Stato di una minoranza… la riforma liturgica fu applicata in modo autoritario e violento… Nessuna obizione venne ascoltata. Tutto sembrava così innovatore, intelligente, comprensibile… e il risultato è che la liturgia della Chiesa postconciliare è una liturgia morente, priva del sacro, del canto, priva di bellezza, di grandezza. Quando si celebra la Messa tradizionale, si sente in essa la Chiesa vibrare. La riforma liturgica fu un colpo di mano del partito intellettuale… ed è fallita… Dio non ha benedetto questa riforma”.
Sono parole drastiche. Forse troppo. Ma è impressionante leggere ciò che Joseph Ratzinger scrive nell’autobiografia (“La mia vita”, ed. San Paolo) dove rievoca “la pubblicazione del messale di Paolo VI, con il divieto quasi completo del messale precedente”. Commenta Ratzinger: “Rimasi sbigottito per il divieto del messale antico, dal momento che una cosa simile non si era mai verificata in tutta la storia della liturgia. Si diede l’impressione che questo fosse del tutto normale. Il messale precedente era stato realizzato da s. Pio V nel 1570, facendo seguito al Concilio di Trento; era quindi normale che, dopo 400 anni e un nuovo Concilio, un nuovo papa pubblicasse un nuovo messale. Ma la verità storica è un’altra. Pio V si era limitato a far rielaborare il messale romano allora in uso, come nel corso vivo della storia era sempre avvenuto lungo tutti i secoli… senza mai contrapporre un messale a un altro. Si è sempre trattato di un processo continuativo di crescita e di purificazione, in cui però la continuità non veniva mai distrutta… Ora invece” scriveva Ratzinger “la promulgazione del divieto del messale che si era sviluppato nel corso dei secoli, fin dal tempo dei sacramentali dell’antica Chiesa, ha comportato una rottura nella storia della liturgia, le cui conseguenze potevano essere solo tragiche… si fece a pezzi l’edificio antico e se ne costruì un altro”.
Ed ecco una pagina clamorosa che prefigura il programma del suo pontificato: “Per la vita della Chiesa è drammaticamente urgente un rinnovamento della coscienza liturgica, una riconciliazione liturgica, che torni a riconoscere l’unità della storia della liturgia e comprenda il Vaticano II non come rottura, ma come momento evolutivo. Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia, che talvolta viene addirittura concepita ‘etsi Deus non daretur’: come se in essa non importasse più se Dio c’è e se ci parla e ci ascolta”.
Sarà una svolta straordinaria, innanzitutto per la Chiesa. Ma non solo. Significherà ritrovare anche “una sorgente fecondissima di civiltà” (come scrisse Paolo VI) e soprattutto di bellezza. E’ curioso. Il “progressismo” cattolico che ha provocato questo immenso disastro pretende sempre che si ascoltino “i segni dei tempi” (cioè l’opinione pubblica) e che si “dialoghi” con il mondo. Ma per quanto riguarda il “colpo di mano” sulla liturgia accadde esattamente il contrario. Perché tutta la migliore cultura contemporanea – cattolica o laica – si oppose a questo catastrofico azzeramento di una tradizione millenaria. E’ una storia dimenticata o meglio rimossa, che è stata appena rievocata da Francesco Ricossa nel libro “Cristina Campo, o l’ambiguità della Tradizione”. In piena stagione sovversiva, ovvero nel 1966 e nel 1971, uscirono due manifesti in difesa della Messa tradizionale di s. Pio V. E furono firmati da personalità di eccezionale rilievo. Ne cito alcuni: Jeorge Luis Borges, Giorgio De Chirico, Elena Croce, W. H. Auden, i registi Bresson e Dreyer, Augusto Del Noce, Julien Green, Jacques Maritain (che pure era l’intellettuale prediletto di Paolo VI, colui a cui il Papa consegnò, alla fine del Concilio, il documento agli intellettuali), Eugenio Montale, Cristina Campo, Francois Mauriac, Salvatore Quasimodo, Evelyn Waugh, Maria Zambrano, Elémire Zolla, Gabriel Marcel, Salvador De Madariaga, Gianfranco Contini, Giacomo Devoto, Giovanni Macchia, Massimo Pallottino, Ettore Paratore, Giorgio Bassani, Mario Luzi, Guido Piovene, Andrés Segovia, Harold Acton, Agatha Christie, Graham Greene e molti altri fino al famoso direttore del “Times”, William Rees-Mogg.
Curiosamente non se ne tenne alcun conto. Certo, è singolare vedere insorgere tanti intellettuali laici in difesa dell’antica liturgia laddove molti ecclesiastici (che pure capivano cosa stava accadendo) non ebbero il coraggio di fiatare. Con Benedetto XVI potremmo assistere al ritrovamento della grande tradizione liturgica della Chiesa. Sarà un evento straordinario. E forse sarà l’inizio della fine per il “progressismo” dentro la Chiesa. La fine dell’autodemolizione. Ritrovare le radici significa ritrovare il vigore, l’identità, la bellezza del rito e l’evidenza del Mistero in un tempo in cui gli uomini, assetati del sacro, lo trovano spesso in forme aberranti.
da “Il Giornale” settembre 2005