C’è un testo – di autore ignoto – che sta facendo il giro del web e delle scuole, specialmente fra insegnanti e genitori. E’ stato letto in alcuni seguiti programmi radio e tv e da allora è diventato virale. Pare sia stato scritto da un (non meglio identificato) “preside di Singapore”.

Al di là della strana (e forse dubbia) paternità della lettera, va detto che punta a far vibrare le corde sentimentali tipiche del nostro tempo che vive di emozioni e che disdegna la razionalità.

Dice così:

“Gli esami dei vostri figli stanno per iniziare, so che sperate che i vostri figli vadano bene. Ma per favore ricordatevi che tra gli studenti che siederanno per fare gli esami c’è un artista che non capisce la matematica, c’è un imprenditore a cui non interessa la storia, c’è un musicista i cui voti in chimica non saranno importanti, c’è una persona sportiva il cui allenamento è più importante della fisica. Se tuo figlio andrà bene sarà un’ottima cosa, ma se lui o lei non lo faranno, per favore non privarli della loro fiducia e della loro dignità. Digli che non fa niente, che è solo un esame. Potranno fare cose molto più grandi nella loro vita. Digli che non importa quali saranno i loro voti, li amerai lo stesso senza giudicarli”.

Conclude:

“Comportatevi così per favore. E quando lo farete, ammirerete i vostri figli conquistare il mondo. Un esame o un brutto voto non gli porteranno via i loro sogni e il loro talento. Per favore, non pensate che dottori e ingegneri siano le uniche persone felici al mondo. Cordiali saluti, il preside”.

Applausi scrocianti da tutti, abbracci e tanto sentimento. Ma siamo sicuri che siano parole e idee giuste? Non tutto quadra in questa lettera.

Infatti a scuola non ci sono imprenditori, musicisti e campioni olimpionici, ma semplicemente dei ragazzi che cercano il senso della vita e che – proprio attraverso l’esplorazione del mondo e la conoscenza (che ci è tramandata da chi ci ha preceduto) – sono accompagnati a capire se stessi e la realtà per poter far emergere i propri interessi, i talenti e le diverse vocazioni professionali e umane. Non è semplice.

Ci sono stati futuri premi Nobel per la fisica che a scuola avevano problemi con la matematica e magari pensavano – sbagliando – che erano fatti per il violino. Ci sono scrittori a cui ha dato tantissimo lo studio della fisica. O geni del mondo di internet per i quali è stato importantissimo il corso di disegno.

Inoltre l’indulgenza generalizzata di questa lettera è sbagliata, perché è ideologica: nella realtà ogni ragazzo è un caso a sé. Come diceva don Milani è necessario dare orgoglio e sostegno all’umile e al timido. Ma anche far abbassare la cresta al superbo e all’arrogante. Un vero educatore deve saper capire di cosa ciascuno ha bisogno.

E poi chi è mai il genitore che “priva della loro fiducia e della loro dignità” i figli per l’esame andato male? O che per questo smetterà di amarli?

Non so se l’autore della lettera è veramente un “preside di Singapore”. Può darsi, anzi è probabile, che in Oriente la disciplina e il senso del dovere siano così rigidi e severi da trasformare in un’esperienza scioccante e devastante un esame andato male. Ma da noi non è così.

E’ vero che i nostri ragazzi sono molto fragili ed è vero che ci sono ogni tanto dei casi di giovani per i quali un fallimento scolastico è insopportabile (qualche volta si è tragicamente arrivati al suicidio). Ma non credo che da noi ci siano genitori che infieriscano crudelmente sui figli bocciati. Oltretutto agli esami non boccia quasi più nessuno.

Casomai da noi è emerso il problema inverso. Si tende cioè ad essere troppo indulgenti verso i figli e a gettare tutte le responsabilità (e le colpe) sulla scuola e gli insegnanti. Talora anche con aggressività (per fortuna raramente).

Quello che si dovrebbe far capire ai giovani è che anche un esame andato male o un brutto voto sono esperienze da cui si può imparare. E molto.

Così come si può imparare moltissimo dai fallimenti della propria vita. Ma chi educa a questo orizzonte positivo?

Dov’è la solida certezza che davano i veri maestri, i padri e le madri di una volta, quella certezza che trasforma anche una sconfitta in una futura vittoria?

Tutti tendono a deresponsabilizzarsi: noi genitori dimentichiamo che proprio noi siamo (e restiamo) i primi e i principali educatori dei nostri figli e siamo noi che dobbiamo accompagnarli nella scoperta di sé, della realtà e dei loro talenti.

La scuola e i professori tendono a deresponsabilizzarsi evitando bocciature e brutti voti perché non vogliono provocare traumi, perché “chi sei tu per giudicare” e “chi me lo fa fare”. Così tutti insieme si tende a deresponsabilizzare i figli.

Ma non far capire ai ragazzi che studiare è un privilegio, un’enorme opportunità ed è una responsabilità verso coloro che hanno reso possibile a te andare a scuola (perché dobbiamo tantissimo a chi ci ha preceduto e ha lavorato e sofferto per noi) vuol dire privarli del primo pilastro dell’educazione: la gratitudine. Perché nulla ci è dovuto e tutto ci è stato donato.

Responsabilità, fra l’altro, significa “rispondere a” ed è prezioso imparare presto che tutti dobbiamo rispondere di noi stessi, dei nostri atti, di ciò che scegliamo e che facciamo o che non facciamo.

E costa fatica, ma tutte le conquiste costano fatica. Fare o studiare ciò che non ti piace (e che apparentemente non ti interessa) può riservare sorprese magnifiche.

Antonio Gramsci scriveva giustamente che studiare è anche un’ascesi fisica, implica una fatica fisica e bisogna capire che è un’esperienza preziosa per fare un uomo (peraltro è sempre meno faticoso studiare che andare a lavorare in miniera a 14 anni come dovette fare mio padre).

Ma questo è il vero problema: la sparizione dell’educazione. Parola che significa “condurre”. Dove? Alla verità, al senso delle cose, al senso della vita.

Ma quale educazione è possibile se abbiamo proclamato che non esiste la verità, non esiste il giusto e lo sbagliato, il bene e il male e la vita non ha senso?

Non a caso “errare” significa sia sbagliare che vagare senza meta e senza significato.

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Antonio Socci

Da “Libero”, 19 aprile 2018

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