Il malessere giovanile è un tema scottante. Ne ha scritto anche Walter Veltroni in un editoriale del Corriere della sera. A sorpresa – cercando le cause di questo disagio – ha puntato il dito sul Covid e soprattutto sulla sua gestione: “confinamento, mascherine, scuola a distanza”. In pratica il lockdown.

Gli adolescenti, dice, ne sono usciti male. Lo provano i dati sulle alte percentuali di giovani con sintomi di ansia o depressione. Veltroni cita, fra l’altro, l’Autorità garante dell’infanzia nel cui rapporto si legge che “la pandemia ha determinato un insieme di fragilità di entità crescente”. È un quadro drammatico e purtroppo veritiero. Ma induce a fare tre considerazioni.

La prima: le misure draconiane sul Covid furono decise dal governo giallorosso Conte 2. Non si poteva intervenire a quel tempo per consigliare buon senso? Veltroni è tuttora un nome autorevole a sinistra essendone stato il leader e la sua opinione avrebbe avuto un peso. Mi sbaglierò, ma non ricordo suoi attacchi al governo giallorosso sulla gestione del Covid (né a quello successivo guidato da Draghi che ha gestito la fase della vaccinazione e del green pass). In ogni caso gli fa onore oggi riconoscere le conseguenze di quella stagione mal governata.

Seconda considerazione. Da alcuni anni passiamo da un’emergenza all’altra: non dico che non esistano, ma non tutte sono apocalittiche e c’è un modo allarmistico di presentarle e usarle, da parte di una certa Nomenklatura europea e mondiale, che spazza via il dibattito critico e la ricerca di soluzioni di buon senso per imporre certe politiche come unica via d’uscita (il pensiero unico).

C’è poi da stupirsi se questo susseguirsi di emergenze (oltre a destabilizzare la normale vita democratica degli Stati) genera ansia, angoscia e tensione, soprattutto nei più giovani?

Terza considerazione. Ha ragione Veltroni quando addebita il malessere giovanile di oggi (soprattutto) a quel periodo in cui i ragazzi “sono rimasti soli, costretti nelle case, impauriti da un nemico misterioso e invisibile, legati ai social come unica forma di relazione con l’esterno”.

Ma bisogna anche esseri obiettivi: siamo proprio sicuri che il lockdown sia l’esperienza più devastante che può capitare a una generazione? A me pare che a tutte le generazioni precedenti sia andata molto peggio.

Piccola testimonianza personale: mio padre a 9 anni è dovuto andare a fare il garzone e a 14 è stato mandato in miniera a scavare carbone (dove già lavorava mio nonno). Hanno subìto due guerre mondiali, una dittatura, la fame e la miseria (credo che sia peggio di quattro mesi di lockdown). Eppure, se penso a mio padre, ricordo un uomo saldo e laborioso, di grande forza morale, di solidi ideali, di profonda umanità e grande spirito di sacrificio. Credo che la stessa cosa si possa dire per tutta la sua generazione che poi è quella che ha ricostruito l’Italia.

E oggi? Perché è bastato il lockdown a metterci a terra? Perché c’era già una fragilità umana delle giovani generazioni: l’irrompere di situazioni o eventi traumatici è la goccia che fa traboccare il vaso.

A cosa è dovuta quella fragilità? La generazione dei nostri padri, pur con tanti limiti, era cresciuta in un terreno sì povero di soldi, ma ricco di forti valori. Esattamente quei valori che dopo il ’68 abbiamo buttato al macero e che da decenni disprezziamo: famiglia, doveri, spirito di sacrificio, religione (anche chi non andava più in chiesa era intriso di valori cristiani). Questo plasmava un’umanità capace di affrontare le forti intemperie della vita.

Dopo la rivoluzione politica e sessuale del ’68 ci siamo liberati di quei valori “oscurantisti”. Benissimo. Così emancipati dovevamo diventare finalmente tutti più felici. Era questa la promessa. Ma allora perché oggi ci troviamo con una generazione di giovani, certamente disinibiti, laici e politicamente corretti, ma anche così feriti, fragili e infelici? Eppure è la società in cui si rivendicano tutti i diritti e nessuno parla di doveri e responsabilità. Cos’è andato storto?

Si può ipotizzare che la fragilità, il disorientamento e l’ansia di questa generazione siano anche la conseguenza di quella cultura che credevamo portatrice di felicità?

Certo la storia non torna indietro, né lo si auspica. Ma s’impone una domanda ai padri e alle madri, alla nostra generazione cresciuta con il ’68: che clima educativo abbiamo creato? Quale senso della vita trasmettiamo ai nostri figli?

E’ una domanda che investe anche la scuola. Veltroni giustamente si chiede “Qualcuno ascolta i professori delle scuole italiane? Oltre a picchiarli se hanno messo un brutto voto o a insultarli sulle chat, qualcuno chiede agli insegnanti di aiutarci a capire cosa sta accadendo nei comportamenti, nell’umore, nella visione del mondo degli adolescenti italiani?”

Recentemente ho letto proprio il libro di un’insegnante, Cecilia Ricci, Banchi di vita (Edizioni Helicon). Lo consiglio a chi vuole “ascoltare i professori” per capire i propri figli e anche per capire se stessi.

L’autrice ha una spiccata sensibilità umana e un pensiero potente: viene dalla ricerca universitaria (di filosofia) e ha pubblicato splendidi saggi.

Il suo Banchi di vita è un diario struggente, anche sui mesi del lockdown. La giovane professoressa si mette in discussione davanti a ragazzi feriti, i quali – pur nel “tramonto irreversibile del padre” – come Telemaco “guardano il mare aspettando che qualcosa del padre ritorni”. E l’autrice sa andare ben oltre queste parole di Recalcati.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 26 febbraio 2024

 

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