“Il più grande pensatore marxista del secondo ‘900”. Così, dedicandogli un’intera pagina, “L’Unità”, il 13 luglio del 2008, commemorava Galvano Della Volpe nel quarantennale della morte.

La casa editrice di area Pci, Editori Riuniti, aveva pubblicato tutta la sua opera nel 1972, in un’elegante edizione in sei volumi. Secondo “L’Unità” egli fu addirittura “il maestro invisibile del Sessantotto”. Peraltro morì proprio in quell’anno fatale.

Oggi – dopo quasi 50 anni – si scopre qualcosa, di quei suoi ultimi giorni, che sorprenderà tutti: se non è una conversione le somiglia assai.

Ad alzare il velo su questo mistero intimo del grande pensatore marxista è la sua stessa nipote, suor Monica Della Volpe, con una toccante testimonianza appena pubblicata sul numero 679 di “Studi Cattolici”, il bel mensile diretto da Cesare Cavalleri.

Suor Monica, oggi Madre Badessa di un monastero trappista (di rigorosa clausura), con tenera ironia traccia una piccola storia familiare per incorniciare il suo prezioso incontro con lo zio filosofo.

Comincia parlando del nonno, il conte Lorenzo Della Volpe che era “un uomo dall’intelligenza brillante, spirito illuminista, ironico… Credo fosse chimico, faceva il nobiluomo spiantato e l’inventore”.

La moglie di Lorenzo, Emilia “era una donna di sincera fede e devozione cristiana”, che soffriva quella vita di alti e bassi nel bilancio familiare e “soffriva nel vedere i figli crescere secondo la mentalità paterna, irriverente per le cose sante”.

Dei sei figli maschi, Galvano era il maggiore e il padre di suor Monica, che era il più piccolo, “aveva una venerazione per questo fratello grande, professore e giovane filosofo”.

Suor Monica racconta che sua madre, che aveva un ottimo rapporto di affetto e rispetto verso i suoceri, “detestava fortemente lo zio Galvano, che riteneva l’unico colpevole della ‘conversione’ di mio padre ‘alla fede marxista’, come a volte si diceva. Aveva sposato un cristiano e si era ritrovato un marito sinceramente convinto a questa perniciosa ideologia”.

Suor Monica racconta pure della zia Adriana, moglie di Galvano, “una donna buona e cordiale, di sinceri sentimenti cristiani, anche se imbevuta della fatuità dell’ambiente aristocratico che frequentavano”.

Dice: “Da lei ho sentito alcune battute su mio zio, frecciate che riceveva dalle nobildonne nei salotti e che riguardavano il comportamento frivolo o libertino di suo marito”.

Suor Monica racconta dunque i suoi incontri con questo suo zio filosofo. La prima volta fu dopo la maturità, quando gli zii abitavano a Roma.

La giovane Monica apprese dalla zia che l’amico più affezionato di Galvano era Pier Paolo Pasolini “che lo zio prendeva in giro chiamandolo ‘misticone’ per i suoi interessi religiosi, ma la cui compagnia apprezzava”.

Oggi suor Monica racconta di essere poi tornata a salutare gli zii dopo alcuni anni per congedarsi da loro “essendo in procinto di entrare in monastero”.

E questo è il ricordo più prezioso:

“lo zio era gravemente ammalato, mi ricevette a letto. Dopo i primi convenevoli, mi disse che desiderava completare il capitolo di un libro che stava scrivendo, e mi chiese se poteva dettarmelo. Acconsentii volentieri. Era molto affaticato, mi dettò poche frasi non ben connesse, ma quale fu la mia sorpresa quando dettò chiaramente: ‘alla fine non c’è più né Marx né Engels, ma solo Gesù Cristo!’. Era ciò a cui voleva arrivare. Ci fu un silenzio, poi mi chiese: ‘quanto ho dettato, saranno tre o quattro pagine?’ ‘No zio, meno di una pagina’. Seguì un altro silenzio, si lamentava un poco, disse ‘sono come Cristo in Croce’. Zia Adriana poi mi confermò di averlo sentito altre volte. Era troppo stanco, l’incontro era finito. La morte sopraggiunse dopo non molto tempo”.

Suor Monica commenta: “Ho sempre ritenuto provvidenziale questo incontro”. In effetti questo ricordo svela qualcosa che finora, se non erro, era rimasto del tutto inedito: qualcosa di molto simile a una conversione.

Galvano Della Volpe, in anni recenti, aveva fatto scrivere a proposito di un’altra sua conversione, quella che da Gentile e dal fascismo lo aveva portato a Marx e al Pci: una “conversione” che riguardò gran parte degli intellettuali italiani di quell’epoca.

Mirella Serri, nel 2005, aveva pubblicato un libro che fece molto discutere, “I redenti (Gli intellettuali che vissero due volte. 1938-1948)”, dove ricostruiva i percorsi dei tanti intellettuali che in quegli anni passarono dal nero al rosso.

Di Galvano Della Volpe la Serri nel suo libro menzionava, fra l’altro, gli articoli scritti per “Primato” fra il 1940 e il 1941.

Nel 2006 Pigi Battista con “Cancellare le tracce” torna sull’argomento scrivendo:

“Mai è apparso un accenno, un appunto, una nota, una parentesi autobiograficamente impegnativa con cui Galvano Della Volpe avrebbe potuto dar conto di quel repentino ‘salto da fascista a comunista’ di cui ha parlato il suo allievo Lucio Colletti. Nulla: neanche sulla rapidità di un passaggio così marcato, nel giro di una manciata di anni, dall’elogio estetico del carro armato della Wehrmacht alla compilazione di una sistematica ‘Teoria marxista dell’emancipazione umana’ proposta da Della Volpe già nel 1945”.
Questo “problema” biografico riguarda davvero la gran parte dell’intelligentsia italiana di quegli anni.

Ma, a proposito di Della Volpe, non aveva torto Michele Prospero, in quell’articolo sull’“Unità” del 2008, in cui scriveva:

Quando, nei primi anni Quaranta, Galvano Della Volpe si accostò al marxismo, aveva già alle sue spalle una assai intensa e molto marcata produzione teorica… Non si può però in alcun modo parlare di ‘due’ Della Volpe. Il filosofo che, dopo aver varcato i 40 anni, scoprì Marx non compì affatto una rottura con la sua ventennale riflessione. Collocò piuttosto il nucleo del suo precedente lavoro filologico-critico, mirante a rivendicare la positività dell’esperienza sensibile, nelle nuove categorie analitiche che esploravano il mondo dell’empirico sociale”.

Prospero concludeva polemicamente:

“solo la volgarità di questi anni un po’ meschini ha potuto inserire il nome di Della Volpe tra i ‘redenti’, che con disinvoltura passarono dal fascismo al comunismo. Il suo approdo al marxismo avvenne in realtà su un rigoroso e trasparente profilo di scientificità”.

In effetti, diversamente dai tanti voltagabbana che certo ci furono, quello di Della Volpe fu un itinerario filosofico chiaro: in fondo sia Gentile che Marx discendono da Hegel e forse la cosa davvero indicibile non è tanto il “trasformismo”, ma è proprio questa parentela filosofica, che si aggiunge alla parentela politica e che rende intellettualmente “comprensibili” i passaggi da una parte all’altra.

Anche Lucio Colletti, che fu suo allievo, parlando del caso Della Volpe, fedelissimo al Pci, ma tenuto ai margini dal partito, in una intervista a “Repubblica” escluse che il problema fosse quello dei trascorsi giovanili:

“Personalmente dei suoi scritti fascisti non mi sono mai occupato. Ma mi chiedo: Antonio Banfi aveva perfino insegnato alla scuola di mistica fascista e non era neppure marxista, eppure il Pci lo portava in palmo di mano. Ranuccio Bianchi Bandinelli era rispettato malgrado in orbace avesse fatto il cicerone di Hitler a Firenze. Allora non riesco a capire. I motivi veri per cui Della Volpe fu tenuto ai margini erano altri”, a cominciare da “quel suo andare controcorrente” cosa che “metteva in luce di quale stoffa erano fatte le consorterie filosofiche italiane”.

Alla fine della vita Galvano Della Volpe – ci racconta la nipote – si rese conto che nulla restava di tutta quella complessa vicenda intellettuale e politica.

Tutto svanisce: Hegel, Marx e le consorterie filosofiche, gli amori e le donne, la politica, il Pci, il fascismo e le ideologie.

Tutto dissolto come nebbia al sole: “alla fine non c’è più né Marx né Engels, ma solo Gesù Cristo”, disse l’anziano pensatore alla nipote.

Forse è questa la più profonda intuizione di un filosofo.

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Antonio Socci

Da “Libero”, 29 ottobre 2017

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