“Tra il XII e il XV secolo la Toscana si è ritrovata a essere l’area a maggior intensità finanziaria del globo e, prima di cedere lo scettro a Firenze, la città di Siena, per oltre settantacinque anni, ha occupato il gradino più alto del podio dei principali centri bancari d’Europa”.

Così scrive Alessandro Marzo Magno nel suo “L’invenzione dei soldi. Quando la finanza parlava italiano” (Garzanti).

IERI E OGGI

L’epoca del primato finanziario senese nel mondo rimanda all’antico splendore della ”civitas christiana” medievale, quella che costruisce la Piazza del Campo, la bellissima cattedrale, lo straordinario Ospedale ai piedi del Duomo e che vede fiorire la grande pittura di Duccio e Simone Martini.

Se queste sono “le tenebre del medioevo” sono da preferire ai tempi moderni che si pretendono illuminati e progressivi e hanno prodotto i recentissimi baratri bancari della città toscana.

Nel Trecento avevano molto chiaro cosa significava il buon governo e il cattivo governo e sapevano quali ne sono le ragioni. Tanto che a Siena vollero far affrescare, nel Palazzo pubblico, da Ambrogio Lorenzetti, nel 1338, proprio l’“Allegoria degli effetti del buono e del cattivo governo”.

Si tratta del primo ciclo pittorico civile nella storia dell’arte medievale ed è ritenuto – per i complessi rimandi filosofici della sua allegoria – una sorta di “summa politica”.

George Rowley, docente alla Princeton University, lo definiva appunto una “pictorial Summa government” e arrivava a paragonarlo alla Summa theologica di san Tommaso d’Aquino e a quella Summa della storia cristiana che è la Divina Commedia di Dante.

Alois Riklin ha dedicato un volume alla decifrazione dell’affresco: “La Summa politica di Ambrogio Lorenzetti” (Betti editrice).

OLTRE LA MOSTRA

La grande mostra dedicata al pittore trecentesco che si apre in queste ore a Siena e ha avuto un’anteprima d’eccezione con la visita del presidente della repubblica Mattarella, inevitabilmente si trova ad avere al centro questo grandioso capolavoro per il quale Ambrogio Lorenzetti è diventato celebre.

Si tende talora a liquidare questo ciclo di affreschi come un’operazione propagandistica del governo dei Nove, ma è un’interpretazione sbagliata e superficiale.

“Se i Nove avessero voluto autoadularsi” nota Riklin “si sarebbero messi in mostra da sé, non si sarebbero fatti imporre un modello, ma avrebbero commissionato un ritratto di se stessi”.

Invece i saggi governanti di Siena sapevano benissimo che la città aveva un solo sovrano da celebrare, anzi una Sovrana, una regina il cui nome stava perfino nelle monete della repubblica: La Madonna.

Per questo pochi anni prima, nella Sala del Mappamondo, la grande sala attigua a quella degli affreschi del Buongoverno, avevano voluto rappresentare, a tutta parete, la Madonna in trono e avevano commissionato l’opera a uno dei più grandi pittori del Trecento, il senese Simone Martini.

Sia la bellissima Maestà di Simone, che domina la più grande sala del Palazzo pubblico, sia il Buongoverno di Lorenzetti, ricordano ai governanti – anche con un apparato di scritte – che le loro decisioni determinano la prosperità o la rovina della città e li ammoniscono perché loro dovranno rispondere dei loro atti di governo agli uomini e a Dio.

Questa è – se vogliamo – la filosofia politica di questi stupendi capolavori. La stessa che Dante celebra nella Divina Commedia.

Non a caso nei cieli del Paradiso dantesco si trova scritta la stessa frase che Lorenzetti pone al centro del suo affresco ed è il primo versetto del biblico libro della Sapienza: “Diligite iustitiam, qui iudicatis terram” (amate la giustizia, voi che governate la terra”).

Quel “iudicatis” si riferisce alle funzioni di governo, al fare le leggi, ma anche letteralmente a chi deve “giudicare” l’applicazione delle leggi, cioè quella che oggi è la magistratura.

Il caso ha voluto che il presidente della Repubblica Mattarella, venerdì scorso, a Siena, oltre all’anteprima della mostra sul Lorenzetti, abbia anche partecipato all’inizio del congresso dell’Associazione nazionale magistrati che, proprio a Siena, mette a tema “La Giustizia, i diritti e le nuove sfide”.

Verrebbe da consigliare anche ai magistrati una bella visita al Palazzo pubblico con una spiegazione dettagliata – per loro – dell’affresco del Lorenzetti.

IL SIMBOLISMO

L’affresco del Buon governo e del Cattivo governo si sviluppa su tre pareti celebra virtù civiche e naturali legate strettamente alle virtù teologali della fede cristiana, mentre condanna i vizi.

Meriterebbe una lettura dettagliata, ma nella sostanza fa derivare il buongoverno – e la prosperità del “bene comune” – dall’esercizio delle virtù e fa discendere il cattivo governo, con la rovina della città, dalla pratica dei vizi.

Mi voglio soffermare su un solo dettaglio simbolico. Dalla raffigurazione della Sapienza divina discende quella della Giustizia umana e da questa la Concordia le cui corde richiamano i legami della legge, ma anche l’unità dei cuori (cum cordis).

A queste corde si uniscono infatti ventiquattro cittadini che camminano verso il Bene Comune rappresentato in trono.

L’affresco fa capire bene che questa “agorà”, questo dialogo del popolo in cammino, è ordinato, non è un caos distruttivo. Ha un senso e uno scopo condiviso.

La forte impronta aristotelico-tomista dell’opera di Ambrogio ci induce a cercare nella “Politica” di Aristotele il senso di quel dialogo concorde dei cittadini e di quel loro camminare ordinato che oggi chiameremmo democrazia e sovranità popolare: “l’uomo è un essere socievole molto più di ogni animale” scrive Aristotele che poi rileva come solo l’uomo ha la parola.

Con essa esprime ciò dà gioia e ciò che dà dolore: “la parola è fatta per esprimere ciò che è giovevole e ciò che è nocivo e, di conseguenza, il giusto e l’ingiusto: questo è, infatti, proprio dell’uomo rispetto agli altri animali, di avere, egli solo, la percezione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto e degli altri valori”.

Ecco, la filosofia politica (aristotelica) del Buongoverno: riconoscere l’oggettività del Bene e del Male, che sono inscritti nella coscienza, nella legge naturale, e non possono essere manipolati o ribaltati dai governi e dalle leggi degli uomini che altrimenti diventano tirannia, ingiustizia e cattivo governo.

Questo capolavoro trecentesco così – a volerlo considerare nel presente – suona come una bocciatura senza appello dell’ideologia “politically correct” che ha spazzato via proprio l’oggettività del bene e del male e la legge naturale.

Oggi, nel teatro del potere, non è stata cancellata solo la radice cristiana della nostra civiltà, ma anche la legge naturale e la cultura classica da cui proviene la grandezza dell’Occidente.

Perciò grandi capolavori come quelli di Ambrogio Lorenzetti non possono essere semplicemente le fatue mete di una società di turisti, ma sono un duro (e bellissimo) manifesto politico.

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Antonio Socci

Da “Libero”, 22 ottobre 2017

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