Welby, Prodi e Scalfari
Il “caso Welby”, amplificato dai Radicali in queste settimane, ha spostato i riflettori dell’opinione pubblica dall’agonia del governo all’agonia del povero Piergiorgio. Il crollo di consensi e d’immagine di Prodi e le divisioni della maggioranza sono entrate in un cono d’ombra.
Ma quanto sia grave la situazione del governo – tenuto in vita artificialmente (dai senatori a vita) per l’approvazione della Finanziaria – lo ha riconosciuto il più acceso sostenitore del professore bolognese: Eugenio Scalfari, che è l’altro “giapponese” di Prodi (fu Pannella a definirsi così per primo). Nel suo editoriale sulla Repubblica di ieri, il bollettino medico del governo è parso disperato. A proposito della Finanziaria Scalfari esorta a stendere un pietoso velo anziché “continuare a tormentarsi e a tormentare enunciandone gli errori, le manchevolezze, le esitazioni e gli estenuanti negoziati”, per non dire dell’ “inspiegabile errore del condono dei reati contabili”.
Sul crollo di consensi perfino il fondatore di Repubblica è perentorio: “non c’è dubbio che la maggioranza del corpo elettorale permane tuttora in una fase di dispetto, disincanto, avversione, sfiducia nei confronti del centrosinistra, mentre nella stessa maggioranza la compattezza emerge soltanto al momento del voto parlamentare, salvo il ritorno pressoché immediato alle divergenze e alla rissosità interna tra i partiti e dentro i partiti”. Se non accade il miracolo di un repentino cambiamento, secondo Scalfari, “il centrosinistra può implodere” o comunque “si aprirà una fase di galleggiamento e di sfarinamento in cui il peggio possibile diventerà probabile”.
Ovvero la defenestrazione di Prodi. Da acceso tifoso del premier, il fondatore di Repubblica sostiene che l’ “errore” più pericoloso sarebbe proprio quello di “attribuire a Romano Prodi” la responsabilità del disastro e “progettare una qualsiasi ‘exit strategy’ dall’attuale presidente del Consiglio”. A questa voglia di buttare dalla finestra, a fine anno, Prodi, voglia che serpeggia nell’Unione, Scalfari contrappone la sua fantastica strategia: nominare Prodi “dittatore”. Sì, Scalfari dice testualmente così: “Qui si tratta di dare a Cesare non il consolato, ma la dittatura. Per salvare la res publica dallo sfarinamento e dal dominio delle lobies…. C’è bisogno d’un capo forte con un’agenda politica che colga l’essenziale e lo faccia tradurre in atti da collaboratori intelligenti e ubbidienti”.
Naturalmente Scalfari intende dire “dittatore” solo in riferimento alla sgangherata alleanza di centrosinistra e alle sue risse, ma quell’espressione suona comunque inquietante. Quasi una reminiscenza di quanto lo stesso Scalfari andava scrivendo da giovane, inneggiando su “Roma Fascista” a Mussolini: “Noi vogliamo fare del Partito la corporazione dello Spirito, simile a quella ‘Decima Corporazione’ delineata da D’Annunzio. Noi siamo pronti a marciare, a costo di qualsiasi sacrificio, contro tutti coloro che tentano di fare mercimonio della nostra passione e della nostra fede. E ancora oggi è la stessa voce del Capo che ci guida e ci addita le mete da attingere”.
Ieri come oggi ci vuole la dittatura di un Capo per risolvere tutti i problemi e soprattutto per far fuori tutte le divisioni e le fronde? E’ divertente e istruttivo questo tuffo nella soria. L’articolo scalfariano che ho citato uscì col titolo “Aristocrazia” su “Roma fascista” il 16 luglio 1942. La guerra andava maluccio, dentro il Partito cominciavano i mugugni su Mussolini. Qualcuno cominciava a immaginare una “exit strategy” dal Duce. I giovani, fra cui Scalfari, esibivano invece la loro devozione al Capo.
Infatti quell’anno, viste le lotte interne al partito, Mussolini aveva voluto come segretario del Pnf proprio un giovane, Aldo Vidussoni, perché le nuove leve pendevano dalle sue labbra. Erano i più fidati (e i più fanatici). Il Duce non si fidava dei vecchi fascisti della prima ora come Farinacci che potevano metterlo in discussione. Li metteva da parte. La rivista di Farinacci subì anche dei sequestri. Vidussoni, a nome di Mussolini, gli rimproverava certe posizioni critiche. Questa situazione non sfuggiva al giovane e ambizioso Scalfari, il quale il 10 dicembre 1942 pubblicò un nuovo tuonante editoriale: “L’ora del Partito – Clima nuovo”. Dopo aver elogiato il nuovo segretario Vidussoni, a nome dei giovani “confermati dalla voce del Capo” proclama: “Il Partito Nazionale Fascista deve oggi soprattutto essere in linea per la resistenza e la vittoria”, “fra questi noi vogliamo essere in prima linea”. Ma poi denuncia la zavorra rappresentata dai vecchi, sistemati in posizioni di potere.
Farinacci legge e s’inbufalisce. Già è duro per lui sentirsi isolato e tenuto sotto tiro da Mussolini, ma sentir attaccare i più vecchi dall’ultimo arrivato, sul giornale dei giovani fascisti, è troppo. Così il 21 dicembre 1942 da Cremona verga una replica fiammeggiante “ai camerati di ‘Roma fascista’ ”. Se la prende con questo “Guglielmo Scalfari” (sic!) e afferma che con le invettive di quel giovanotto, “non si dice nulla di concreto, non si propone nessuna idea pratica, anzi si dà l’impressione che ci si voglia precostituire un alibi scagliando accuse generiche contro anonimi”.
Naturalmente Ugo Indrio, direttore di “Roma fascista”, comprende che Farinacci attacca il giovane Scalfari per attaccare Vidussoni e Mussolini. Il quale viene informato e dà ordine di non pubblicare niente. Farinacci – saputo della censura – scrive di nuovo ai giovani camerati spernacchiandoli così: “voi dite di essere fanaticamente Mussoliniani… In una cosa sola noi ci siamo differenziati da voi: nel pubblicare talvolta qualche articolo un po’ vivace, senza chiedere la preventiva approvazione alle nostre gerarchie”.
Storie di ieri. Ma è divertente oggi, dopo 64 anni e tante svolte, leggere un editoriale di Scalfari, nel frattempo diventato un guru del giornalismo progressista, che invita a dare a Cesare-Prodi “non il consolato, ma la dittatura”, ovviamente “per salvare la res publica dallo sfarinamento e dal dominio delle lobbies”, per metter termine all’ “impazzimento della classe dirigente” e pure per “il ridimensionamento del clan prodiano che ha procurato più danni che vantaggi. Ma il tutto guidato e dettato dal dittatore. Dittatore di salute pubblica”.
E’ comprensibile che Scalfari inviti la maggioranza a metter fine alle risse e alle divisioni, ma forse con l’invito alla “dittatura” di Prodi gli è scivolata la frizione. L’idea sembra quantomeno impraticabile. Si ha la sensazione che sia molto più utile per Prodi l’altro suo “giapponese”, Pannella. Il “caso Welby” ha tolto il governo dal fuoco della controversia per giorni e giorni. Ieri sui quotidiani gli editoriali erano non sul governo, ma contro la Chiesa che ha negato i funerali religiosi a Welby. Sulla Stampa tuonava Rusconi, sull’Unità addirittura i due direttori, Padellaro e Colombo. Sulla Repubblica Augias, Rodotà e Sofri. Un gran parlare della messa. Non che costoro bramassero di partecipare alla liturgia funebre (altrimenti potevano andare alle messe di suffragio per Welby che si celebrano regolarmente). A loro interessa solo, come a Pannella, che la Chiesa si pieghi alle loro pretese e dichiari la resa.
Del resto, rinfocolando la rissa su Welby, la Finanziaria è uscita dai riflettori. Adesso altri analoghi “casi Welby” potrebbero proporsi e poi ci sono i Pacs e altre “battaglie” analoghe. Serviranno a Prodi per passare inosservato? O queste discussioni di etica pubblica riproporranno a loro volta le divisioni nell’Unione?
Fonte: © libero – 28 dicembre 2006