Ottant’anni fa – in quel 1943 che il 25 luglio vide il crollo del fascismo – nasceva l’unico “partito della nazione” che l’Italia abbia mai avuto, la Democrazia Cristiana, che ha governato fino al 1993. Da allora il nostro Paese è alla ricerca di un pilastro che svolga la funzione della DC nella prima repubblica.

Quale fu il segreto del suo successo? Ce lo dice la storia. La DC nacque, dicevamo, il 19 marzo 1943, quando fu approvato – dopo mesi di lavoro in clandestinità – il documento di Alcide De Gasperi chiamato “Le idee ricostruttive della Democrazia Cristiana”.

Tra il 18 e il 23 luglio si tenne, al monastero di Camaldoli, con Ezio Vanoni e Pasquale Saraceno, una riunione da cui emersero i 76 punti del cosiddetto “Codice di Camaldoli”: il programma (non solo economico) con cui ricostruire una nuova Italia.

La Dc fu subito il primo partito italiano. Fu protagonista della Costituente, sconfisse il Fronte popolare nelle epiche elezioni del 1948, sfiorando da sola il 50 per cento. Coalizzando i partiti laici e socialisti ricostruì il Paese distrutto dalla guerra e consolidò la democrazia, dopo la disastrosa dittatura fascista, con l’ancoraggio all’Occidente e all’Europa.

Trasformò un paese agricolo, con vaste aree di sottosviluppo, in un moderno Paese industriale. Realizzò un “miracolo economico” che stupì il mondo, con un avanzamento sociale senza eguali, paragonabile a una vera (e pacifica) rivoluzione: basti ricordare la riforma agraria, la sanità (gratuita) per tutti e la scuola (gratuita) per tutti. Un ascensore sociale formidabile che mai si era visto.

La Dc era stata vincente, all’inizio, grazie all’appoggio della Chiesa e degli Usa. Ma fin dal 1948 si affermò – e vinse tutte le elezioni – per la cultura politica che seppe elaborare: una straordinaria sintesi keynesiana di imprenditoria privata diffusa e di intervento statale (l’Iri e soprattutto il capolavoro di Enrico Mattei, l’Eni, furono alla base del miracolo economico).

La DC seppe essere inclusiva, seppe rappresentare tanti interessi sociali diversi e coalizzare culture politiche diverse. Non solo al suo interno, ma anche aggregando al governo le tradizioni laiche, socialiste, repubblicane e liberali.

Fu capace così di interpretare il Paese che da secoli è variegato, multiforme, anche nei territori e nelle culture (infatti riprese da Sturzo il regionalismo). Così divenne il “partito della nazione”.

L’Italia – che nel 1945 era un Paese di rovine, sconfitto e ridotto in miseria – attorno al 1990 era diventata la quarta potenza industriale del mondo.

Poi, fra 1989-1990 e 1993, si susseguirono eventi convulsi. Il crollo del Muro di Berlino (con il cambiamento di nome del Pci), il ciclone di Tangentopoli, il passaggio dalla legge elettorale proporzionale al maggioritario che imponeva di fatto il bipolarismo.

Nelle elezioni (col proporzionale) del 1992 la DC – contrapposta al Pds di Occhetto – aveva preso circa il 30 per cento (il Pds il 16 per cento). La “cancellazione” della DC dalla competizione politica fu sancita il 18 gennaio 1994 quando nacquero il Ppi e il Ccd.

Alle elezioni del 1994, con il nuovo sistema elettorale maggioritario che imponeva due schieramenti, gli italiani non trovarono più la DC, tradizionale baluardo contro il Pci-Pds, ma il Partito popolare di Martinazzoli (cioè la sinistra dc che – di fatto – prendeva una strada diversa).

Così molti elettori democristiani scelsero la neonata Forza Italia di Berlusconi che (coalizzata con la Lega, il Ccd e il partito di Fini) si poneva, appunto, come forza alternativa al Pci-Pds e come nuovo “partito della nazione”.

Il bilancio politico del trentennio berlusconiano è ormai materia per storici, soprattutto dopo la scomparsa del Cavaliere. Si può dire però che fu vincente la scelta di Berlusconi di raccogliere nel suo partito culture politiche diverse (liberali, cattoliche, laiche e socialiste). Si intravedeva una continuità con il pentapartito.

Con delle diversità. Berlusconi accentuò il tema dell’impresa e della sussidiarietà (cioè la prevalenza della società sullo Stato) perché corrispondeva alla sua storia personale e perché – dopo il crollo del Muro di Berlino e l’inizio della globalizzazione – dappertutto si stava affermando il primato del Mercato.

C’era poi in Forza Italia il tradizionale ancoraggio all’occidente e all’Europa (con qualche giusta riserva per la diversa natura che stava assumendo con il passaggio dalla Cee alla UE di Maastricht).

Infine c’era il riferimento esplicito ai valori cristiani, nella forma liberale di Benedetto Croce (“perché non possiamo non dirci cristiani”)anziché nel rapporto diretto con il mondo cattolico com’era stato per la Dc.

Berlusconi ereditò dalla Dc e dal Psi anche un atlantismo attento all’area mediterranea e al dialogo Est-Ovest. L’evento di Pratica di Mare del 2002 – con cui sperava di far progredire la democrazia in Russia, portarla verso l’occidente e consolidare la pace – andava in questa direzione. Ma fu un’alba incompiuta. Mosca e Washington cambiarono strada, tutto è tornato indietro e oggi siamo addirittura alla tragedia della guerra.

Anche il Pd, con la segreteria (e il governo) Renzi, coltivò l’ambizione di diventare il nuovo “partito della nazione”. Ma senza riuscirci. Attualmente è diventato un “partito della fazione”, un po’ radicale, grillino e massimalista.

La sfida storica per i partiti del Centrodestra consiste oggi nel riuscire a costruire un nuovo “partito della nazione” che sia capace di rappresentare diverse fasce sociali e diverse culture politiche. Una sintesi vincente.

È un’impresa molto difficile, ma è l’unica via che può dare stabilità di governo e può permettere al Paese di progredire, con una nuova stagione di prosperità.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 16 luglio 2023

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