Dante muore in esilio, a Ravenna, nel settembre 1321. Davanti alla grandezza del Poema sacro, alcuni anni dopo, i cittadini di Firenze richiesero ai Priori delle Arti una sua lettura pubblica per consentire a tutti di apprenderne gli insegnamenti, “tam in fuga vitiorum, quam in acquisitione virtutum”. Nella petizione si precisava che per questa lettura occorreva “unum valentem et sapientem virum, in huiusmodi poesiae scentia bene doctum”.

Così Firenze, cinquant’anni dopo la morte di Dante, nell’agosto del 1373, decise questa “riparazione” verso il grande poeta che aveva esiliato. Fu incaricato Giovanni Boccaccio che ben conosceva la Commedia e aveva già scritto il “Trattatello in laude di Dante”.

Nell’ottobre 1373 iniziò il suo ciclo di letture pubbliche nella chiesa di Santo Stefano, alla Badia fiorentina, che proseguì fino al XVII canto dell’Inferno, quando fu interrotto (pare) per motivi di salute (di lì a poco morì).

Il legame di Boccaccio con Dante era forte. Come quello fra il Decameron e la Commedia. Eppure i due capolavori vengono solitamente contrapposti.

Il più autorevole critico del Decameron, Vittore Branca, nel saggio introduttivo all’opera del Boccaccio dei Meridiani Mondadori, ha spiegato che “la tradizione critica ha voluto vedere quasi costantemente nel Decameron il manifesto ideale di una nuova epoca, anzi la negazione e la beffa dell’età di mezzo” perché “è stata deviata soprattutto da due pregiudizi: dai motivi polemici anticlericali e antiromani di origine luterana… e dalla concezione illuministica e ottocentesca, neppure oggi spenta, che opponeva a un Medioevo tutto tenebre e superstizione la grande luce dell’Umanesimo”.

Infatti per i critici dell’Ottocento, come Carducci e De Sanctis, il Medioevo “era la negazione dell’uomo e il trionfo della trascendenza: l’Umanesimo capovolgeva i termini e, accantonando la trascendenza, metteva sull’altare l’uomo. Dante era, per questa critica, il poeta di quell’umanità tutta assorta nelle realtà trascendenti: il Boccaccio gli si opporrebbe come il cantore di quella gioia e di quell’esaltazione della vita terrena che caratterizzerebbe la nuova civiltà”.

Così alla Commedia dantesca, “succederebbe la commedia del senso e della carne”.

Una lettura fondata? Branca spiega: “sotto il peso di queste concezioni manichee tutto il grandioso disegno del Decameron svaniva”. È stato proprio Branca a riscoprire la struttura e il significato dell’opera del Boccaccio, fino a descriverla come “una grandiosa architettura gotica”.

Per Branca “il capolavoro del Boccaccio, proprio perché appare nei suoi aspetti più costituzionali da una parte come la tipica ‘commedia dell’uomo’ rappresentata attraverso i paradigmi più canonici alla visione cristiana e scolastica della vita, e dall’altra come una vasta e multiforme epopea della società medievale italiana, colta e ritratta nel suo autunno splendido e lussureggiante, non si oppone alla Divina Commedia, ma in qualche modo le si affianca e quasi la completa”.

Non a caso Armando Torno, nella premessa a “Tutte le opere” di Giovanni Boccaccio (Scholé), riferisce che nel 1969 Paolo VI era così interessato agli studi del Branca da telefonare personalmente alla casa editrice La Scuola per caldeggiare la loro pubblicazione.

Del resto i due eredi di Dante, cioè Boccaccio e Petrarca, i modelli della prosa e della poesia italiana, nonché fondatori dell’Umanesimo, furono entrambi chierici e Boccaccio fu addirittura ordinato sacerdote.

 

Antonio Socci

 

Da Libero, 17 settembre 2022

 

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