E’ stata chiamata “la triste gioventù” e pare la protagonista delle cronache estive di quest’anno. Nell’inverno scorso sui giornali era rappresentata come una gioventù dal presente precario e dal futuro incerto, che sconta i debiti dei padri e deve lasciare l’Italia per potersi costruire qualcosa.

In questi giorni è diventata pure una “gioventù consumata” che “esaurisce la vitalità e la vita stessa in discoteca e nei dintorni. Questi giovani: che si avvelenano con pasticche e droghe”, come scrive Ilvo Diamanti.

Ma c’è qualcosa che nessuno dice: estate o inverno, tutti sono sempre alla ricerca del senso della vita, sia la ragazzina adolescente che si riempie di piercing per “gridare” il bisogno di essere notata, cioè di esistere per qualcuno, di essere amata; sia il laureato in Informatica che deve fare il pizzaiolo, ma ora ha messo da parte i soldi per cercare a Londra la sua vera opportunità di lavoro.

Ed è drammatico, ma vero, che nessuno, nessun padre, nessun maestro, nessun amico, nessun prete, si fa loro incontro e li accompagna alla scoperta del senso della vita e li sostiene nella quotidiana costruzione della propria umanità.

Il mercato offre solo surrogati tossici, come mettere kerosene nel biberon del neonato. Prendiamo l’amore. E’ naturale e umano che quella sia la prima strada dove si cerca.

E lì cosa trovano gli adolescenti e i giovani? Il mercato globale della pornocrazia e del consumo compulsivo, la violenza di un dispotismo ideologico mascherato da tolleranza, di un’ossessione collettiva, di una sessuomania patologica tipica delle civiltà al tramonto.

Così, per fuggire in un’altra dimensione, per scappare dalla propria solitudine, dal vuoto interiore ed esteriore, resta lo “sballo”, l’illusione chimica della felicità.

A dire il vero questo è un articolo su san Giovanni Bosco, perché il 16 agosto si celebrano i duecento anni dalla sua nascita. Ma è proprio di lui che ho parlato finora. O meglio: della sua assenza. Dell’attuale deserto nichilista. Del vuoto di padri veri e di maestri veri come lui.

Perché lui nella Torino di metà Ottocento si trovò davanti un panorama giovanile altrettanto devastato, a causa degli sconvolgimenti sociali della rivoluzione industriale.

E prima era quasi peggio. Ancora bambino Giovanni perde il padre contadino che aveva solo 33 anni: a quel tempo la vita media delle popolazioni rurali era sui 40 anni. Così lui a 12 anni, nel 1827, deve già andarsene di casa, con un fagotto e tanta fame addosso, a cercare un qualche lavoro.

Karl Marx descrive il turbolento movimento di masse in Inghilterra: “1834: grande aumento di fabbriche e di macchine, deficienza di mano d’opera. La nuova ‘legge sui poveri’ dà incremento alla migrazione dei lavoratori agricoli nei distretti industriali. I bambini vengono strappati dalle contee rurali. Tratta degli schiavi bianchi”.

Giovanni fa il garzone. Non possiede niente. Ma ha un tesoro che nessuno può rubargli: la granitica fede cattolica trasmessagli dalla madre, un temperamento allegro e cordiale e una fine intelligenza.

“All’inizio in città non conoscevo nessuno”, racconterà nelle “Memorie”. Sottrarsi alle mafie, ai clan, ai caporali delle varie bande giovanili è dura.

Ma per i coetanei lui ha un forte carisma e pian piano attorno alla sua persona si crea una bella compagnia, che chiamò “Società dell’allegria”, evocando le parole bibliche “servite Domino in laetitia”. Già nel 1832 “mi trovai così alla testa di un gran numero di giovani”.

Qui matura la sua vocazione sacerdotale e nasce il primo Oratorio dove raccoglie tanti ragazzi, spesso dai bassifondi della città. Comincia a dare un tetto a quelli soli e sbandati, a curare la loro istruzione umana e professionale. E poi si dedica all’educazione di tanti altri. Così nascono scuole professionali, laboratori, officine e botteghe artigiane.

L’oratorio salesiano a Torino diventa in breve una rete di intraprese che strappano i giovani all’emarginazione e allo sfruttamento (ma anche alle seduzioni del nascente socialismo rivoluzionario), dando loro una solida formazione cristiana e una moderna preparazione professionale.

Altre vocazioni fioriscono attorno a don Bosco, così i salesiani (questo il nome della sua famiglia religiosa, posta sotto la protezione della Madonna) diventano a Torino una realtà all’avanguardia anche dal punto di vista tecnologico, per la nascente industria piemontese.

Ma sono soprattutto una forte presenza culturale perchè don Bosco dalla formazione dei giovani è passato anche alla formazione del popolo con la fondazione di tipografie e case editrici che pubblicano i suoi scritti, molto vivaci e cattolicissimi (oggi sarebbero un pugno alla mentalità “politically correct”).

Nella sua passione di far conoscere Cristo don Bosco non si ferma di Torino o alle altre città piemontesi, ma spedisce i suoi giovani, diventati sacerdoti, in altre città italiane e fino alle lontane Americhe.

Una fede cattolica fervorosa e lieta, la sua, che fin dall’inizio si esprime nella carità, nella cultura e nella missione (ma la carità è diventata subito promozione umana, lavoro, prosperità economica e costruzione civile).

Naturalmente un santo così suscitò molte ostilità (anche delle gerarchie ecclesiastiche) e odi violenti. Fu accusato di essere affarista, faccendiere, fanatico e visionario. Fu perfino fatto oggetto di aggressioni e attentati.

Tuttavia perfino i laicisti lo riconobbero come un formidabile sacerdote di Cristo, uomo ammirevole e padre dei giovani.

L’anticlericale Urbano Rattazzi, importante politico piemontese, ebbe a dire: “Don Bosco è la più grande meraviglia del XIX secolo”.

Univa un concreto realismo a carismi soprannaturali che talora fecero clamore, come quando predisse pubblicamente una serie di lutti nella famiglia reale.

Negli infuocati anni del Risorgimento anticipò quella che sarebbe diventata la presenza politica dei cattolici.

Ecco cosa accadde. Il popolo, cattolico e contadino, non aveva né diritti politici, né assistenza sanitaria, né istruzione. Era solo carne da cannone per le mire espansionistiche dei Savoia (contrapposte al saggio federalismo di Cattaneo e Pio IX).

Il bilancio dello Stato sabaudo gronda le lacrime e il sangue dei contadini se è vero che dal 1830 al 1845 le spese militari non scesero mai sotto il 40 per cento della spesa statale complessiva e con le guerre di conquista piemontese tali spese militari arrivarono a superare il 60 per cento.

Mentre per l’assistenza sociale, la pubblica istruzione, l’igiene e la sanità quello Stato nell’insieme non spese mai più del 2 per cento del suo bilancio.

Per la conquista militare della penisola il regime sabaudo ricorre al debito pubblico, a una tassazione che è il quintuplo dell’Inghilterra e agli espropri dei beni ecclesiastici (tutte misure che aggravano le condizioni del popolo).

Prima e dopo l’Unità d’Italia si perpetrò una massiccia confisca di beni della Chiesa (che erano anche una rete di welfare per la povera gente), con arresti e deportazione di un centinaio di vescovi.

La confisca divenne colossale con la conquista di Roma e si può dire sia stata la Chiesa a fornire la base per le finanze pubbliche dello stato italiano (per questo col successivo Concordato – come parziale indennizzo – lo Stato si fece carico del mantenimento degli ecclesiastici).

Ebbene, don Bosco fu in prima linea nel denunciare l’arbitrio di questa politica e nel fare la battaglia culturale per i diritti della Chiesa e del popolo, ma fu anche colui che – per conto del Papa – tenne un realistico dialogo riservato con il potere politico.

Grazie ai suoi doni mistici ebbe rivelazioni drammatiche sul futuro della Chiesa (ovvero sul nostro tempo) e sempre insisté sulla necessità di ancorarsi all’eucarestia e alla protezione della Madonna.

Fu un vero padre per tantissimi giovani. Non solo la Chiesa, ma il nostro Paese avrebbe bisogno di un nuovo don Bosco.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 15 agosto 2015

Facebook: “Antonio Socci pagina ufficiale”

(per chi è interessato ho scritto su don Bosco, il Risorgimento e i cattolici il libro “La società dell’allegria”, ripubblicato ampliato con un saggio sulla conquista piemontese di Roma col titolo “La dittatura anticattolica”, entrambi da Sugarco).