Nei giorni scorsi Federico Rampini ha annunciato che l’Italia – anche per il dollaro sopravvalutato rispetto all’euro – sta per essere presa d’assalto dal turismo d’oltreoceano: “Molti economisti americani rivalutano la famosa sigla del Club Med perché in questo momento le economie che tirano, anche grazie a questo boom del turismo, sono Portogallo, Spagna, Italia e Grecia. Molto più della Germania che invece è una locomotiva che perde colpi”.

Fra l’altro la crisi del sistema Germania appare chiara anche – in questi giorni – dai problemi organizzativi dei Campionati europei di calcio che fa emergere un’inefficienza insolita per quel Paese. È un sintomo del declino tedesco.

Dicevamo però della “stagione turistica eccezionale” che si annuncia per l’Italia: sarà una manna per la nostra economia, ma di sicuro scatenerà la polemica sull’overtourism (il sovraffollamento turistico), come se il turismo fosse un male, mentre il male casomai è l’incapacità di gestirlo.

Il recente, sgradevole episodio di Firenze, dove un turista ha defecato sulla scalinata che porta alla cupola del Brunelleschi, insieme ad alcuni episodi di vandalismo degli anni passati, sono casi limite molto amplificati. Ma non sono rappresentativi del fenomeno turistico che è ben altra cosa.

Dovremmo attrezzarci con una visione sistemica per gestire il massiccio arrivo di visitatori. Invece si fanno molte chiacchiere o si lanciano pretestuosi anatemi contro gli “affitti brevi”.

La verità è che le nostre città d’arte non sono preparate a governare questa (pacifica e benefica) “invasione” di turisti assetati delle nostre bellezzeche poi si replicherà – da dicembre prossimo – per l’Anno Santo 2025. Se si guarda alle condizioni di Roma, che del Giubileo sarà il cuore, non sembra davvero di vedere una città pronta, che sta facendo un salto di qualità.

Si ha la triste sensazione che nelle nostre realtà metropolitane, al massimo, si mettano toppe o che si escogiti casomai qualche trovata propagandistica, green e politicamente corretta, che invece di risolvere i problemi ne produce di nuovi.

Eppure nelle migliori università italiane ci sarebbero tecnici capaci di visione che potrebbero progettare una modernizzazione delle cittàdegna di un Paese come l’Italia che per secoli è stata la patria della genialità (anche urbanistica).

Poi bisognerebbe riflettere su cos’è questa Italia che un mare di turisti viene ad ammirare. Cos’è che cercano? E cosa noi offriamo? Cosa sappiamo di noi stessi?

L’Italia non è né un’immensa Disneyland, né una gigantesca Pompei o un deposito di antichità e di ruderi. Il fascino della Grande Bellezza che attrae il turismo di massa è molto più profondo.

Tomaso Montanari – che su questo giornale è poco apprezzato come opinionista politico, ma che invece vale come storico dell’arte – ha colto un aspetto decisivo: Abbiamo forse smarrito la ragione profonda per cui davvero ci interessiamo al patrimonio culturale e alla storia dell’arte: la forza di liberazione con cui apre i nostri occhi e il nostro cuore a una dimensione ‘altra’. Il suo latente, ma fortissimo, conflitto col tempo presente, con il mondo com’è oggi. La sua capacità di separarci dal flusso ininterrotto delle cose che passano, per metterci in contatto con ciò che sta in fondo al nostro cuore, ciò che ci lega davvero alla vita, ciò che le dà senso”.

C’è questa sete esistenziale e spirituale perfino nell’animo del più distratto turista, quello che sembra pensare solo a scattare selfie. Ma allora qui emerge una domanda più profonda: non si tratta solo di riorganizzare le nostre città, ma anche di chiederci che consapevolezza abbiamo noi della nostra terra, delle nostre radici, di ciò che chiamiamo “patria” (la terra dei padri) e di tutto il patrimonio spirituale, materiale ed estetico che ci hanno tramandato.

Qui il tema dell’identità diventa centrale e riguarda il nostro popolo, nel suo insieme, così immemore di se stesso e della propria storia.

Dovrebbe servire anche a valutare la formazione che viene data dal nostro sistema scolastico e da quello universitario (penso ai corsi di laurea relativi ai Beni culturali da cui escono i professionisti che poi dovrebbero valorizzare il nostro patrimonio artistico).

Già in qualche città emergono idee nuove per strutture museali moderne che facciano scoprire – anche con l’aiuto delle nuove tecnologie – il genio italiano, ciò che lo caratterizza e ciò che ha dato all’umanità nel corso dei secoli. In ogni nostra regione – perché i nostri territori sono tanti scrigni carichi di storia e di civiltà – si potrebbero immaginare luoghi del genere, creando una sorta di museo diffuso del “genio italiano” sul territorio nazionale. Anche con investimenti delle imprese.

Sarebbe una crescita educativa, culturale del nostro popolo che potrebbe diventare crescita spirituale e morale. Non si tratta di alimentare uno sciocco e banale orgoglio nazionalistico, ma di capire – noi per primi – il dono per l’umanità che è stato – e che è ancora – il “genio italiano”.

Guido Ceronetti – nel suo pessimismo cosmico, ma innamorato dell’Italia – scriveva: Finché esisteranno frantumi di bellezza, qualcosa si potrà ancora capire del mondo. Via via che spariscono, la mente perde capacità di afferrare e di dominare. Questo grande rottame naufrago col vecchio nome di Italia è ancora, per la sua bellezza residua, un non pallido aiuto alla pensabilità del mondo”.

Per questo occorre anzitutto ribellarsi all’incuria di tanto nostro patrimonio artistico e naturale. “Tutto questo” scriveva ancora Ceronetti “mi fa, pensando alla bellezza italiana sparita e sparente, ruggire di dolore”. Poi aggiungeva: “c’è qualcosa d’immorale nel non voler soffrire per la perdita della bellezza, per la patria rotolante verso chi sa quale sordido inferno di dissoluzione, non più capace di essere lume nel mondo”.

Sono parole di molti anni fa. Forse eccessive. Ma è sempre vera la ferita di questo Paese che dovremmo sentire sulla nostra carne. Ed è ancora splendente la grande bellezza italiana.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 30 giugno 2024