Stiamo facendo l’abitudine a tutto? O certi eventi inducono a riflettere sulla nostra condizione di mortali, sul nostro futuro comune e sulle minacce che incombono su di noi?

Nell’arco di pochi mesi abbiamo vissuto una pandemia planetaria che ha sconvolto il mondo facendo milioni di vittime. Poi è scoppiata una guerra nel cuore d’Europa che – oltre a sommarsi a tanti altri conflitti dimenticati, sanguinosi e tragici – potrebbe allargarsi diventando una terza guerra mondiale e addirittura un conflitto nucleare, come ha prospettato questa settimana, nell’indifferenza generale, il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres. Sembra di vivere un tempo apocalittico. Dovremmo esserne molto preoccupati.

Infine in questi giorni è arrivato un terremoto di grande potenza che, in Turchia e Siria, ha devastato intere città e portato morte e distruzioni a popoli già provati dalla guerra e perfino dal colera.

La nostra misera condizione umana – davanti alle immagini di rovina e di morte che ci sono arrivate in casa – ci è apparsa chiara in tutta la sua fragilità, nella sua irriducibile precarietà.

Ma in questo mare di lacrime è accaduto qualcosa che non era scontato: tutti, anche Paesi “avversari”, hanno messo a disposizione il loro aiuto, superando muri che sembravano insormontabili. Toni Capuozzo ha amaramente constatato che oggi “purtroppo i disastri sono diventati l’unico richiamo alla ragione”.

La ragione ci dice quello che papa Francesco ha condensato in poche parole: “è tempo di compassione, è tempo di solidarietà. Basta con l’odio, basta con le guerre e le divisioni che portano all’autodistruzione. Nel dolore uniamoci, aiutiamo chi soffre in Turchia e Siria, costruiamo la pace e la fraternità nel mondo”.

Poi il Pontefice ha aggiunto: Tutti siamo fragili e vulnerabili; tutti abbiamo bisogno di quell’attenzione compassionevole che sa fermarsi, avvicinarsi, curare e sollevare”.

Non occorre essere cristiani, credenti e praticanti, per riconoscersi in questo sentimento e in queste parole. Esprimeva un pensiero simile anche un nostro grande poeta che – almeno come idee professate – era ateo.

Giacomo Leopardi, nella sua splendida “Ginestra”, il fiore che nasce sulle pendici del Vesuvio, mostra la devastazione prodotta dal vulcano sulle antiche città (“or tutto intorno/ una ruina involve”), poi (“Qui mira e qui ti specchia,/ Secol superbo e sciocco”) si rivolge a chi s’illude sulla potenza dell’umanità.

Quindi proclama che un animo nobile è quello di chi non aggiunge – alle sofferenze umane e alle sventure della vita comune – “né gli odii e l’ire/ fraterne”.

Infine considerando “l’umana compagnia/ tutti fra sé confederati estima/ gli uomini, e tutti abbraccia/ con vero amor, porgendo/ valida e pronta ed aspettando aita/ negli alterni perigli e nelle angosce/ della guerra comune”.

Il Poeta esalta quel sentimento di pietà e solidarietà che talora “strinse i mortali in social catena” di fronte alla dolorosa sorte comune. Quasi un farsi scudo l’uno dell’altro.

Accade solo in certi eventi, purtroppo, ma non sarebbe forse ragionevole che diventasse sentire comune sempre? Non è ora che – come esorta a fare il Papa – ci decidiamo a umanizzare e smilitarizzare la nostra vita e anche il nostro stesso linguaggio, oltreché gli Stati?

Non ci basta la prospettiva molto concreta e minacciosa di un’ecatombe nucleare che ridurrebbe il pianeta a una rovina annientando il genere umano forse addirittura fino alla sua totale sparizione? Di cos’altro abbiamo bisogno per scuoterci?

Nei giorni scorsi – dicevo – perfino il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ha lanciato l’allarme: “Le prospettive di pace continuano a diminuire. Le possibilità di un’ulteriore escalation e spargimento di sangue continuano a crescere”.

Il mondo – ha aggiunto – “è al più alto rischio da decenni di una guerra nucleare. Un annientamento nucleare causato in modo accidentale o in modo deliberato… Dobbiamo porre fine alla minaccia rappresentata dalle 13mila armi nucleari immagazzinate negli arsenali di tutto il mondo”.

Ma l’arma più pericolosa che dovremmo pacificare è l’animo umano che può usare quegli ordigni: i loro effetti orribili li conosciamo, li abbiamo toccati con mano alla fine della Seconda guerra mondiale. Una tragedia che, nel suo complesso, ci ha mostrato l’abisso di male di cui l’uomo è capace. Ma sembra che la lezione del passato non basti.

A volte, considerando questo tempo, sembra di riconoscerlo nella descrizione che il Vangelo fa degli ultimi giorni: “In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: ‘Come avvenne al tempo di Noè, così sarà nei giorni del Figlio dell’uomo: mangiavano, bevevano, prendevano moglie, prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca e venne il diluvio e li fece perire tutti. Come avvenne anche al tempo di Lot… Così accadrà…” (Lc 17, 26-30).

Poche e inascoltate sono le voci profetiche che oggi cercano di svegliare le coscienze dei popoli e dei governanti. Occorrerebbe un grande cambiamento spirituale.

Sono i grandi testimoni e i martiri del Novecento che gridano la necessità di un mondo più umano e fraterno. Diventare più umani è un compito che riguarda tutti: uomini, istituzioni, cultura, informazione e Stati. Ed è l’unica via razionale e realista. Sarebbe anche un mondo più prospero.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 12 febbraio 2023