In questi giorni sui quotidiani si fa il bilancio del primo anno del governo Meloni. Ma c’è pure chi fa un bilancio ideologico chiedendosi a che punto è la guerra alla cosiddetta “egemonia culturale della sinistra”.

È stata la Meloni stessa, il 27 maggio, a iniziare la riflessione: “Ci avevano detto che la sinistra aveva una egemonia culturale, ma non era egemonia culturale, era egemonia di potere. Ora c’è nervosismo perché si teme di perdere quell’egemonia”.

In effetti, a ben vedere, non c’è una cultura di sinistra egemone, ma c’è un establishment di sinistra egemone. È diverso. Gli autori che vanno per la maggiore nel mondo intellettuale dominante, da decenni, sono Nietzsche e Heidegger, un tempo etichettati “di destra”. Quanto all’economia Marx è stato chiuso in soffitta e la sinistra – fin dagli anni Novanta – ha sposato il primato del Mercato, travestito da modernità o da europeismo. Oppure ha abbracciato il dirigismo della UE su certi temi, come l’ecologismo ideologico sul clima che è l’opposto del progresso (che dovrebbero difendere i progressisti). È anzi il suo rifiuto.

La sinistra, non sapendo più cambiare la realtà, ha preteso di cambiare il linguaggio imponendo il politicamente corretto: “solo che” come dice Giovanni Orsina “quella logica e quella lingua non descrivono più la realtà”. Quantomeno la realtà della gente comune. D’altronde quel codice ha irritato e stancato anche diverse aree intellettuali di sinistra.

Di idee, comunque, non c’è traccia. Sotto la poltrona, niente. Sanno usare solo il registro dell’indignazione e della scomunica – essendo egemoni nelle redazioni dei giornali – per delegittimare l’opinione dissonante.

In quell’intervento di maggio, la Meloni aggiungeva: Non intendo sostituire un intollerante sistema di potere con un altro intollerante sistema di potere. Io voglio liberare la cultura italiana da un intollerante sistema di potere nel quale non potevi lavorare se non ti dichiaravi di una certa parte politica… ma a me non interessa costruire un’altra egemonia di potere”.

È la prospettiva giusta. Ma, a fine luglio, Alessandro Gnocchi ha ripreso la riflessione su questo tema chiedendosi sul “Giornale” cos’ha fatto la cultura “di destra” o di centrodestra in questo anno. Il titolo del suo articolo è esauriente: “Oltre al potere, niente. Le guerre sottoculturali di destra e sinistra”.

Ovviamente Gnocchi sa e dice che per aprire la finestra al vento delle idee occorre anche un cambio generazionale e culturale (non è curioso, per esempio, che la giuria letterario del Premio Campiello – fondato  da Confindustria Veneto – sia presieduta da Walter Veltroni?).

Ma al di là del fisiologico rinnovamento bisogna anzitutto aprire prospettive culturali nuove. È importante rinnovare certi centri decisionali, spiega Gnocchi, ma purché non si riduca tutto – come a sinistra – a una guerra di poltrone (vedi il recente infortunio sulla direzione del Museo Egizio di Torino… a proposito, qualcuno spieghi la polemica progressista contro il direttore degli Uffizi).

Aldo Cazzullo sostiene che “nella rete l’egemonia della destra è assoluta”. Secondo Marcello Veneziani è vero, la Rete fa emergere il senso comune della gente che è opposto ai dogmi del mainstream, però la Rete è marginale, è il “mondo di sotto” del sentire comune che non ha voce in capitolo ed è delegittimato dal “mondo di sopra” della cultura ufficiale. Salvo prevalere in certe occasioni, per esempio alle elezioni di un anno fa. Ma resta periferico.

Oltre alla Rete il comune sentire si è manifestato con il successo del libro di Roberto Vannacci. Ma è ancora e solo insofferenza verso il pensiero unico. È mal di pancia. È muro contro muro. Mentre all’Italia occorre la legittimazione reciproca del dialogo, del confronto delle idee.

Una (delle poche) personalità della cultura accademica che ha cercato il dialogo con la destra (o il centrodestra) è Ernesto Galli della Loggia che, in una serie di articoli sul “Corriere della sera”, ha esortato a rappresentare una seria cultura conservatrice, che ritiene oggi necessaria, invitando a non confonderla con nostalgie del passato.

Potrebbe significare, per fare esempi culturali (azzardo), la scelta di valorizzare il 150° anniversario della morte di Alessandro Manzoni (si pensi al tema dell’identità nazionale o della giustizia) o il 50° anniversario dell’uscita di “Arcipelago Gulag” di Solzenicyn, anziché riproporre – che so – D’Annunzio o il Futurismo.

In certi ambienti culturali di destra si tende a mettere insieme, un po’ alla rinfusa, elenchi di intellettuali “non di sinistra” del passato per dimostrare che il pensiero non è stato una prerogativa della sinistra, ma ce n’è stato di più in altre aree. Però si tratta spesso di nomi che – in vita – non sarebbero mai stati dentro lo stesso minestrone. E comunque di personalità ben lontane da idee di rappresentanza politica o di fazione.

Proprio la libertà del pensiero che li connotò dovrebbe essere rivendicata come caratteristica preziosa rispetto alla logica dell’affiliazione che può essere rimproverata all’altra parte.

In questo panorama, una via interessante è quella indicata da Veneziani che ha appena pubblicato un libro su Giambattista Vico, “Vico dei miracoli”. È un lavoro che ripropone un grande pensatore italiano, originale e geniale, già riscoperto da Augusto del Noce e Rocco Montano (o, con orientamenti divergenti, Benedetto Croce).

Veneziani così fa riemergere una tradizione culturale preziosa su cui una nascente area conservatrice potrebbe innestarsi. Una riflessione proposta a tutti, su cui però non sboccia nessun dialogo perché il Muro è ancora in piedi.

Anche questo dimostra che l’obiettivo indicato dalla Meloni – aprire le finestre – è ciò di cui l’Italia ha bisogno. Ma ci vorrà tempo.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 24 settembre 2023

 

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