Un grande della diplomazia internazionale, Henry Kissinger, disse: “Per capire Putin, si deve leggere Dostoevskij”. Così anche Alejandro Jimenez sulla Harvard Political Review: “Per capire veramente Putin dobbiamo rivolgerci agli scritti di Fëdor Dostoevskij”.

Dunque oggi, nel bicentenario della nascita dello scrittore russo, ci si deve interrogare anche su quale sia il segreto della Russia di Putin che in Dostoevskij è espresso così genialmente.

Può aiutare il Fëdor Dostoevskij scritto da Vladimir Solovev e pubblicato in questi giorni da Cantagalli (sarà presentato il 5 ottobre in Vaticano, presenti il Segretario di Stato card. Parolin e il Metropolita Hilarion, Presidente del Dipartimento  relazioni esterne  del Patriarcato di Mosca).

Un classico che va ad aggiungersi ad altri due straordinari classici, quello di Michail Bachtin, “Dostoevskij”, e quello di Nikolaj Berdjaev, “La concezione di Dostoevskij” (entrambi pubblicati da Einaudi).

Del resto noi lettori occidentali continuiamo ad essere folgorati dai suoi romanzi perché parlano a noi, di noi.

Come dimostra il libro di Paolo Nori, “Sanguina ancora (l’incredibile vita di Fëdor M. Dostoevskij)”, uscito da Mondadori.

Interessante anche il recentissimo pamphlet di Bianca Gaviglio, “Dostoevskij e il cavallo di Nietzsche” (Lindau) che racconta l’autentica folgorazione di Friedrich Nietzsche per le opere di Dostoevskij sebbene – per il suo cristianesimo – lo scrittore russo fosse esattamente agli antipodi.

È difficile sottrarsi alla seduzione di quelle pagine. Il libro di Paolo Nori racconta la sua personale scoperta giovanile di Dostoevskij in cui ritrovo totalmente la mia (siamo della stessa generazione).

Cosa, dei romanzi dello scrittore russo, ha affasciato noi, che fummo giovani negli anni Settanta, nel pieno di un decennio di follia rivoluzionaria? L’ho capito di recente, leggendo un libro che raccoglie gli scritti di Virginia Woolf sugli scrittori russi, “L’anima russa” (Elliot).

La Woolf scrive:

I romanzi di Dostoevskij sono vortici ribollenti, mulinelli di sabbia in una tempesta, trombe d’acqua che sibilano e gorgogliano e ci risucchiano. Sono composti puramente e completamente della materia dell’anima. Veniamo inghiottiti contro la nostra volontà, presi nel vortice, accecati, soffocati, e allo stesso tempo riempiti di un’estasi che ci stordisce. All’infuori di Shakespeare, non c’è lettura più eccitante di questa. Apriamo la porta” prosegue la Woolf “e ci ritroviamo in una stanza piena di generali russi, dei tutori di questi generali, delle loro figliastre e cugine, una folla di persone varie che parlano tutte ad alta voce dei loro affari più privati. Ma dove siamo? Di certo è compito di un romanziere comunicarci se siamo in un albergo, un appartamento, un alloggio in affitto. Eppure qui nessuno ritiene di dovercelo dire. Siamo anime, torturate e infelici, la cui unica occupazione è parlare, rivelare, confessare, attingere a qualunque lacerazione della carne e dei nervi per estrarne quei peccati indecifrabili che strisciano nella sabbia, sul fondo di noi stessi. Ma,
mentre ascoltiamo, la nostra confusione si placa lentamente. Ci viene gettata una fune…”.

Ed ecco la conclusione rivelatrice: È l’anima che conta, la sua passione, il suo tumulto, la sua sconcertante mistura di bellezza e infamia”.

Chi mai, in quegli anni Settanta, aveva pronunciato davanti a noi la parola anima? Chi – a noi giovani ubriacati dalle ideologie – aveva mai fatto scoprire il mistero del nostro io, la nostra solitudine, le nostre inestirpabili domande e il bisogno di trovare il senso della vita?

Rarissimi furono quei padri e quei maestri che avemmo la grazia di incontrare. Molti di noi affogarono quelle domande nella droga e i più impararono a censurarle o a convivere con quella ferita.

La Woolf spiega che la centralità dell’“anima” caratterizza anche gli altri grandi scrittori russi, da Cechov a Tolstoj. Ecco perché questa parola, “anima”, ci riporta all’inizio.

L’America, accecata dall’ideologia della globalizzazione, negli anni Novanta non ha capito il profondo desiderio della Russia di non essere umiliata.

Kissinger ha spiegato che il comportamento della Nato è apparso ai russi come “una sfida alla propria identità”. Ecco perché il diplomatico americano diceva che con la Russia bisogna dialogare. Putin non ha disegni imperiali, “non è un personaggio come Hitler, ma viene fuori da Dostoevskij”.

Sappiamo che il presidente russo cita spesso Dostoevskij. Da lui e dalle sofferenze del suo popolo sotto il comunismo ha imparato che “se Dio non c’è tutto è permesso” e che la Russia ha una missione spirituale.

Anche l’ex direttore del New York Times, Bill Keller, ha scritto: “Putin è uscito da Dostoevskij, angosciato dalla mancanza di religiosità, dal permissivismo e dal declino morale”.

Sembra la descrizione di Putin fatta da papa Benedetto XVI: “credo che egli – un uomo di potere – sia toccato dalla necessità della fede. È un realista. Vede che la Russia soffre per la distruzione della morale. Anche come patriota, come persona che vuole riportarla al ruolo di grande potenza, capisce che la distruzione del cristianesimo minaccia di distruggerla. Si rende conto che l’uomo ha bisogno di Dio e ne è di certo intimamente toccato”.

È vero, il cammino dal totalitarismo del passato a una piena democrazia in Russia non è ancora compiuto del tutto, ma anche le leadership occidentali hanno qualcosa da imparare dalla Russia. Per esempio a proposito del nichilismo.

Non saranno l’economia, il Pil e la forza militare, a salvare i popoli, se perdono la propria anima. Dostoevskij faceva dire al principe Miškin che “la bellezza salverà il mondo”, ma pochi sanno chi era per lui la salvifica Bellezza: “Il bello è l’ideale e l’ideale, sia da noi che nell’Europa civilizzata, è ancora lontano dall’essersi cristallizzato. Al mondo esiste un solo essere assolutamente bello, il Cristo, ma l’apparizione di questo essere immensamente, infinitamente bello, è di certo un infinito miracolo”.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 3 ottobre 2021

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