Nella premessa di Mario Draghi al “Piano nazionale di ripresa e resilienza”, anticipata dal Foglio, si dice che il Covid 19 in Italia ha fatto più danni che in altri Paesi, sia dal punto di vista economico (il Pil crollato dell’8,9%, mentre nell’Ue è calato del 6,2) sia dal punto di vista sanitario (“l’Italia è il Paese che ha subito la maggior perdita di vite nell’Ue”).

Draghi non punta il dito, ma questi due dati sono un’implicita bocciatura del governo precedente. Il premier poi rileva che “la crisi si è abbattuta su un paese già fragile dal punto di vista economico, sociale e ambientale”.

E snocciola dei dati che finora erano ripetuti solo dagli eurocritici: “Tra il 1999 e il 2019” scrive Draghi “il pil in Italia è cresciuto in totale del 7,9%. Nello stesso periodo in Germania, Francia e Spagna l’aumento è stato rispettivamente del 30,2, del 32,4 e del 43,6%. Tra il 2005 e il 2019, il numero di persone sotto la soglia di povertà è salita dal 3,3% al 7,7% della popolazione – prima di aumentare ulteriormente nel 2020 fino al 9,4%”.

In pratica una catastrofe economica e sociale. A cosa è dovuta? Non è certo un caso che i decenni indicati da Draghi siano proprio quelli dell’euro e dell’imposizione dei devastanti parametri di Maastricht.

L’Italia aderì all’UE e all’euro, negli anni novanta, con la spensierata euforia prodiana e ulivista di chi è ammesso in un Club d’élite. Bettino Craxi si chiedeva perché si prospettavano “le delizie del Paradiso terrestre” quando era già evidente che sarebbe stato nella migliore delle ipotesi “un limbo, ma nella peggiore un inferno”. 

Oggi è Draghi stesso a riconoscere che, in questi vent’anni, l’economia nazionale è collassata. Lui non parla di euro o Maastricht, ma mostra che prima eravamo una grande potenza industriale e poi ci è piombata addosso la notte.

Qualcuno obietterà che anche gli altri paesi citati sono nella Ue e nell’euro. Ma ognuno fa storia a sé. L’euro ha offerto alla Germania un marco svalutato e ha imposto all’Italia una moneta penalizzante, cosicché le esportazioni tedesche hanno fatto furore e la produzione italiana ha avuto una mazzata.

Non solo. Abbiamo dovuto subire anche i parametri di Maastricht voluti dalla Germania, un’austerità devastante che in Italia è stata imposta in modo assai più gravoso e più rigoroso di altri paesi: ricordate tutte le polemiche per quello 0,4 per cento in più di deficit/Pil che era stato deciso dal governo Lega/M5S del 2018 e che l’Ue pretese di abbattere? Questo rigore europeo, che ha penalizzato l’economia italiana (e anche la sanità), non è stato applicato agli altri.

Germania e Francia non si sono certo fatti imbrigliare dai parametri e li hanno tranquillamente superati pure Spagna e Portogallo, mentre l’Italia doveva sottostare a quel 3% di deficit. Perché da noi domina un “partito europeo” che preferisce “morire per Maastricht” piuttosto che battersi per gli interessi dell’Italia.

Così “dal 2008 al 2017” secondo i calcoli di Fabio Dragoni “l’Italia ha cumulato un deficit/Pil complessivo del 32% circa. Il Portogallo intorno al 60%. La Spagna intorno al 70%. L’Irlanda quasi l’80%”.

Sono centinaia di miliardi che potevano significare, per gli italiani, molte meno tasse, più investimenti e occupazione, quindi più crescita (e anche più sanità).

Del resto lo stesso Draghi, nel documento citato, individua una delle cause del collasso italiano nel “calo degli investimenti pubblici e privati” perché “nel ventennio 1999-2019 gli investimenti totali in Italia sono cresciuti del 66% a fronte del 118% della zona euro”.

Praticamente la metà. Draghi sa perché: ci è stato imposto di tagliare gli investimenti e anche tutto il resto. Lui stesso del resto firmò con Trichet la famosa “lettera della Bce” al governo Berlusconi del 2011 che prescriveva tagli pesanti e pareggio di bilancio. Eppure non c’era un problema di debito pubblico (come si può notare oggi che lo abbiamo fatto lievitare).

Tralascio l’annosa questione storica su come si formò il grande debito pubblico italiano, che non è affatto dovuto, come sempre si ripete, agli italiani spreconi, ma ha a che fare con le scelte strategiche preparatorie della moneta unica (come il divorzio Tesoro/Bankitalia): lo riconobbe onestamente, dieci anni dopo, Nino Andreatta nello storico articolo sul “Sole 24 ore” del 26 luglio 1991.

Anche Draghi, allora governatore di Bankitalia, rievocando nel 2011 il “divorzio” Tesoro/Bankitalia, ricordò che gli oppositori di quella decisione nel 1981, erano “timorosi del rialzo dei tassi d’interesse reali” e agitarono “lo spettro della deindustrializzazione del Paese”.

È proprio ciò che è avvenuto. Draghi osservò laconicamente che “gli effetti” di quella decisione “sulla politica di bilancio non sono quelli sperati” e riconobbe che “il rapporto tra debito pubblico e prodotto”, che nel 1980 era al 56,8 %, “supera il 120 per cento del prodotto nel 1994”.

Oggi si cambiano quelle politiche (fino a ribaltarle) e sarebbe giusto riconoscere i meriti degli eurocritici.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 25 aprile 2021