In vista delle elezioni europee – e quindi del redde rationem – a sinistra è iniziato il fuggi fuggi da questa UE, governata dalla Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen, che fu votata dalla coalizione Ppe, Socialisti, liberali e Macron (con l’aggiunta del M5S).

Evidentemente si rendono conto di quanto sono impopolari le politiche fanaticamente ideologiche (e pure inutili) che – anzitutto su spinta della sinistra – hanno imposto ai popoli, con costi insostenibili per la gente comune.

Non si tratta solo dei contadini e degli allevatori (che già si sono fatti sentire). Ogni famiglia sta facendo i conti e rabbrividisce pensando a quanto le costerebbero – per esempio – direttive come quelle sulla casa o sull’obbligo dell’auto a motore elettrico (e sono solo due esempi).

Tra i folgorati sulla via di Damasco ci sono personalità di primissimo piano del nostro centrosinistra come Romano Prodi.

In questi giorni – a sorpresa – ha tuonato contro il Green Deal, quella sorta di “piano quinquennale” in stile sovietico della Commissione, che per alcuni anni è stato il fiore all’occhiello dei progressisti europeisti.

Prodi ha dichiarato: “Ho dedicato tante energie all’ambiente, dal Protocollo di Kyoto in poi, ma l’idea di puntare tutto su una sola tecnologia (il motore elettrico, ndr) o che entro pochi anni non si possono più produrre auto a combustione interna lo trovo assolutamente sbagliato”.

Peccato che l’ex premier bolognese non abbia espresso tali giudizi quando sono state varate queste politiche e coloro che si opponevano (il centrodestra in Italia) è stato bollato spregiativamente come antieuropeo, sovranista e antiambientalista.

La (tardiva) conversione prodiana peraltro non si limita alla sola questione dell’elettrico, ma prende di mira tutta la strategia dell’agenda verde della UE con la sua velleitaria pretesa di essere l’avanguardia del mondo: “Le politiche ambientali” ha affermato “non possono essere solo italiane né solo europee; tutti insieme facciamo il 17,8% dell’inquinamento. Quindi bene se vogliamo fare la ‘nave scuola’, ma attenzione, non possiamo andare al di là delle nostre possibilità”.

Non è chiaro a cosa si riferisca Prodi con quel “17,8% dell’inquinamento”, probabilmente somma emissioni inquinanti con emissioni di CO2 che non sono inquinanti (ma sono la base della vita).

Però è chiaro cosa intende dire: assestare un colpo mortale alla nostra economia con delle politiche ambientali estremiste, mentre l’Asia – anzitutto Cina e India – se ne infischia e coglie l’occasione della de-industrializzazione europea, provocata da queste stesse politiche, per conquistare maggiori quote di mercato, è suicida e alla fine porta a un pianeta più inquinato.

Siluri sulla UE sono arrivati anche da un altro ultra europeista, Matteo Renzi secondo cui sul Green deal “vediamo il fallimento di Ursula von der Leyen, perché l’ideologia non funziona. La battaglia per la decarbonizzazione è sacrosanta, ma solo con l’ideologia si torna al carbone”.

Queste furbe revisioni sulle politiche ambientaliste però si dovevano fare prima. Come si spiegano oggi?  Renzi, col suo scaltro tatticismo, oltre a tentare di intercettare il malcontento degli elettori verso la UE, sembra soprattutto voler attaccare la presidenza di Ursula von der Leyen che prima sosteneva. Soprattutto la accusa di “strizzare l’occhio” ai conservatori.

Che nell’ultimo anno la Von der Leyen si sia avvicinata a Giorgia Meloni è vero, ma è proprio questa virata che ha favorito le positive modifiche che hanno “moderato” il Green deal, nell’attesa che sia poi spazzato via del tutto con il nuovo parlamento europeo.

Quindi al fuggi fuggi pre-elettorale dalle politiche più antipopolari si aggiunge la concomitante esplosione della “maggioranza Ursula” (che proprio Renzi e Prodi esaltarono, nel 2019, tanto che Prodi la propose anche per l’Italia).

Il Pse, di cui fa parte il Pd, è il sostenitore più estremista delle politiche green e nel suo recente congresso ha lanciato un suo candidato per la presidenza della Commissione per fermare l’apertura ai conservatori. Anche ieri la segretaria del Pd Schlein ha attaccato Von der Leyen perché va con Giorgia Meloni in Egitto per un piano di controllo delle migrazioni.

Il Ppe ha riconfermato la candidatura della Von der Leyen, ma spaccandosi. Contro di lei sono arrivati poi i siluri dell’attuale ministro delle finanze tedesco, il liberale Christian Lindner. E Macron – che ormai in Francia va a picco nei sondaggi – cerca di recuperare voti fingendosi Napoleone e facendo risuonare pericolosi proclami di guerra verso la Russia che hanno il solo effetto di spaccare ancora di più la UE (e pure la Nato).

In pratica assistiamo alla disintegrazione dell’eurofanatismo. Con aspetti surreali tutti italiani, perché, mentre lancia siluri contro la Von der Leyen – che ha votato e sostenuto per cinque anni – Renzi partecipa al rissosissimo tentativo della Bonino (settantaseienne leader di “Più Europa”), di fare una lista ultra europeista con Calenda e lo stesso Renzi stesso alle prossime elezioni europee.

La telenovela – che ormai solo Maurizio Crozza riesce a raccontare – ha dell’incredibile perché, in pratica, coloro che velleitariamente pretenderebbero di federare 27 Stati e costruire gli “Stati Uniti d’Europa” (un vero incubo) non riescono nemmeno a riunire le loro piccole liste in un cartello comune in vista delle elezioni.

L’europeismo esplode a Bruxelles seriamente e a Roma in forma di commedia all’italiana.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 17 marzo 2024

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