Da poco era caduto il Muro di Berlino, seppellendo i regimi comunisti d’Europa, quando arrivai a Praga sulle tracce di Franz Kafka, cercando nella città vecchia l’atmosfera “magica” descritta da Angelo Maria Ripellino.

Kafka, morto nel 1924, cento anni fa, in vita pubblicò solo pochi racconti. Poi si è scoperto tutto il suo genio. Secondo Auden egli ha, con la nostra epoca, “lo stesso tipo di rapporto che Dante, Shakespeare e Goethe ebbero con la propria”.

In effetti, ha spiegato George Steiner, Kafka fu “un profeta” nel senso biblico: “era dotato di uno spaventoso potere di premonizione, che vedeva fin nei minimi particolari gli orrori che stavano maturando”.

Nel “Processo”, aggiunge Steiner, “mostra il modello classico dello stato di terrore”. Poco dopo la morte dello scrittore, infatti, tutto si sarebbe tragicamente realizzato: il nazismo falciò anche la vita di parenti stretti di Kafka e distrusse il mondo ebraico dell’Europa centrale in cui era sbocciato il genio dello scrittore. Ma l’incubo del totalitarismo continuò per quarant’anni in Cecoslovacchia con il comunismo.

In quell’estate praghese del 1992 dunque ripercorsi anche i luoghi di dolore della violenta dittatura marxista che mi erano rimasti nella memoria: Piazza San Venceslao, cuore della rivolta del 1968 schiacciata dai carri armati sovietici, il luogo in cui Jan Palach, nel gennaio 1969, si dette fuoco per protesta contro l’invasione. Infine il Castello dove nel 1992 risiedeva come presidente della repubblica, democraticamente eletto, quel Vaclav Havel che – da studente – avevo conosciuto come eroico dissidente e perseguitato politico.

Lo slogan che risuonava per le vie di Praga, durante la “Rivoluzione di velluto” del 1989, era stato infatti “Havel na hrad”Havel al Castello, e così avvenne con il crollo del regime: il drammaturgo, autore del “Potere dei senza-potere”, diventò il simbolo della ritrovata libertà e fu eletto presidente.

La sua sede istituzionale era il castello del IX secolo che per secoli era stato la residenza dei Re di Boemia: è la fortezza che domina, da un’altura, la città. Probabilmente proprio dall’urbanistica praghese Kafka prese l’idea del Castello trasformandolo in simbolo letterario e filosofico.

“Il Castello” – pubblicato postumo nel 1926 – è infatti il titolo di un altro suo grande romanzo (incompiuto). Un’opera in cui l’intuizione profetica dello scrittore forse va oltre gli orrori totalitari del Novecento, perché sembra rappresentare la condizione dell’uomo della modernità che si sente “gettato” nel mondo come uno che arriva in un “villaggio” da estraneo, non atteso e non gradito, impossibilitato a capire e compiere lo scopo della sua esistenza, in balìa di eventi e poteri incomprensibili. È ciò che l’ostessa del villaggio dice al protagonista del romanzo: “Lei non è del Castello, lei non è del paese, lei non è nulla”.

Tuttavia il Castello come simbolo del mistero della vita era già stato usato, molti anni prima, nel XVI secolo, da una grande santa e mistica spagnola, anche lei di origine ebraica da parte di padre: Teresa d’Avila, autrice appunto del “Castello interiore”.

Il carmelitano Antonio Maria Sicari ha dedicato un meraviglioso libretto a questo caso, “Fortezze accessibili. Dall’estraneo del Castello di Kafka al Castello interiore di S. Teresa d’Avila” (Edizioni Ocd).

L’assoluta inaccessibilità del Castello per il protagonista del romanzo di Kafka, che lì era stato chiamato a svolgere il lavoro di agrimensore (geometra), è il motivo del suo spaesamento.

“Anche Teresa” scrive Sicari “parla di un uomo estraneo al Castello e ne parla in termini ancora più radicali (dato che, nella sua opera, l’uomo esiliato diventa sempre più simile alle bestie)”, ma lei indica la via per entrare nel Castello – metafora del proprio vero io, della propria anima – per “raggiungere l’appartamento regale dove si è amorevolmente attesi”.

Teresa parla infatti all’“uomo che non sa chi è” e scrive: “è una pena non piccola e motivo di confusione, il dover constatare che per nostra colpa non conosciamo noi stessi e non sappiamo nemmeno chi siamo”.

La mistica guida il lettore a scoprire il regno smisurato e bellissimo che ha dentro di sé, la propria anima, “abitata” dal gran Re che lì aspetta ogni uomo. Ma nell’opera di Teresa “il Castello subirà una sorta di doppio avvolgimento: non sarà più soltanto l’uomo ad essere il Castello-dimora di Dio (primo abbraccio avvolgente), ma sarà Dio ad essere il Castello-dimora dell’uomo (secondo abbraccio infinitamente più avvolgente)”.

E questo a causa dell’Incarnazione. Teresa – spiega Sicari – “ha costantemente sotto gli occhi la bella e santa e familiare umanità mediatrice di Cristo”: con lui “la Divinità è entrata personalmente e carnalmente nel cerchio delle nostre (possibili) amicizie”.

E’ lui la via per fare ingresso nel Castello. Interrogato un giorno da Gustav Janouch su Gesù, Kafka chinò il capo e rispose “è un abisso pieno di luce. Bisogna chiudere gli occhi per non precipitarci”.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 20 maggio 2024

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