L’Ucraina, il Nagorno armeno, il Medio Oriente: è una “terza guerra mondiale a pezzi”. L’espressione di papa Francesco sembra ormai descrivere la realtà che può diventare anche più drammatica. Speriamo di non rivedere una catastrofe planetaria.

È una prospettiva così spaventosa che preferiamo non pensarci, come se fossero cose lontane che in fondo non ci riguardano se non per le ricadute economiche. È comprensibile e umano. In fondo ciascuno di noi ha già i suoi problemi, i suoi dolori, a volte anche drammi personali e familiari e sentiamo di non farcela a caricarci di tutte le sofferenze del mondo. Ci sembrano schiaccianti.

Questo è un po’ ciò che traspare dai sondaggi sugli italiani e la guerra. Forse però c’è anche un modo diverso di guardare noi e i nostri problemi nel mondo. L’ho scoperto un giorno del 1979. Avevo vent’anni, ancora non sapevo cos’è veramente il dolore e non c’erano guerre.

Nella settimana santa di quell’anno ero insieme a tanti altri studenti, qualche migliaio. A un certo punto don Luigi Giussani ci parlò di Emmanuel Mounier.

Era stato uno degli intellettuali più vivaci della sua generazione. Uno scrittore e filosofo cattolico (sua l’dea del “personalismo comunitario”). La sua rivista, “Esprit”, rappresentò un punto d’incontro di tante personalità e culture.

È stato recentemente riproposto, nel dibattito sulla guerra in Ucraina, un suo testo del 1939 – ora pubblicato da Castelvecchi con il titolo “I cristiani e la pace” – in cui criticava l’arrendevolezza dei governi democratici di fronte alle pretese della Germania alla Conferenza di Monaco del 1938 e dissentiva sia dal bellicismo che da un pacifismo che somiglia a una resa.

Sono state citate le sue parole in cui spiegava che uno “spirito cristiano” non può “rifiutare a priori l’uso della forza al servizio della giustizia che vi si cerca o delle comunità in cui viviamo”. Il costituzionalista Stefano Ceccanti ritiene che vi sia tutto questo mondo dietro l’articolo 11 della nostra Costituzione. Altri dissentono.

Ma quello che folgorò me, in quel lontano 1979, non era il Mounier filosofo, ma Emmanuel, colui che, negli stessi giorni in cui scriveva quel saggio, viveva già la sua guerra più terribile: la malattia della piccola figlia Françoise.

Era nata nel 1938: una splendida bambina, vivace e piena di promesse di felicità. Dopo pochi mesi comincia ad avere dei problemi. L’8 gennaio 1939 Emmanuel scrive alla moglie Paulette: “la nostra piccola Françoise ci ha spaventato in quest’ultimo mese”.

Lui ha 34 anni ed è già uno degli intellettuali francesi più vivaci e coraggiosi. Scoppia la guerra. Emmanuel viene richiamato alle armi. Nel 1940 la Francia è occupata dai tedeschi, la rivista “Esprit” cessa le pubblicazioni. Nel 1941 Mounier passa nella zona controllata dal governo di Vichy e torna a pubblicare “Esprit” che però viene soppressa dal governo Pétain. Mounier partecipa alla Resistenza e per questo viene arrestato  e imprigionato.

Sono di questi anni tragici le lettere che Emmanuel scrive alla moglie sulla situazione sempre più grave di Françoise che, in seguito a una meningite, resta in uno stato pressoché vegetativo.

Ecco qualche brano:

 

“Storia della nostra piccola Françoise che sembra continuare la sua esistenza con dei giorni privi di storia. Il primo sforzo è stato quello di superare la psicologia della sventura… ‘è toccata loro una grande disgrazia’. Invece non si tratta di una disgrazia: siamo stati visitati da qualcuno molto grande. Così non ci siamo fatti delle prediche. Non restava che fare silenzio davanti a questo nuovo mistero che poco a poco ci ha pervaso della sua gioia. Ho avuto la sensazione, avvicinandomi al suo piccolo letto senza voce, di avvicinarmi a un altare dove Dio parlava attraverso un segno. Ho avvertito una tristezza che mi toccava profondamente, ma leggera e come trasfigurata. Per molti mesi avevano augurato a Françoise di morire, se doveva rimanere così com’era. Non è sentimentalismo borghese? Che significa per lei essere disgraziata? Chi può dire che essa lo sia? Chi sa se non ci è domandato di custodire e di adorare un’ostia in mezzo a noi, senza dimenticare la presenza divina sotto una povera materia cieca? Mia piccola Françoise, tu sei per me l’immagine della fede. Quaggiù la conoscerete in enigma e come in uno specchio”.

 

Poi Mounier aggiunge:

 

“In questa storia, la nostra disgrazia ha assunto un’aria di evidenza. La guerra è scoppiata tanto da coinvolgerla nella grande miseria comune. Così immerso il peso è divenuto più lieve… Quanti innocenti straziati e calpestati! Questa piccola bambina immolata giorno per giorno è stata forse la nostra vera presenza nell’orrore dei tempi. Non si può soltanto scrivere libri… Occorre rimanere padre e madre, non abbandonarti alla nostra rassegnazione, non abituarci alla tua assenza, al tuo miracolo. Donarti il tuo pane quotidiano di amore e di presenza, continuare la preghiera che tu rappresenti”.

 

E l’11 aprile 1940: “Sento come te una grande stanchezza e una grande calma… e sento che il positivo è dato dall’amore della nostra bambina che si trasforma dolcemente in offerta, in una tenerezza che l’oltrepassa e ci trasforma con lei”.

Questa e le altre lettere sono state recentemente pubblicate dalla Bur col titolo “Lettere sul dolore”. È una delle cose più vertiginose e struggentiche abbia conosciuto.

Giussani ci propose queste pagine di Mounier sulla figlia e aggiunse: “Era il simbolo di Cristo sulla croce. Siamo tutti una cosa sola ed è il sacrificio che ci salva. Ma oggi pochi di voi capirebbero questo”.

Alcuni di noi però, nella commozione, intuirono che la nostra esistenza è chiamata all’eroismo, quello del sì alla Vita e dell’offerta di sé. Per tutta l’umanità.

 

Antonio Socci

Da “Libero”, 29 ottobre 2023

(NELLA FOTO: IL VOLTO DELLA SINDONE)

 

 

 

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