Conosciuto e stimato come studioso che ha sviluppato la filosofia di René Girard, approfondendone, come pochi altri, le intuizioni, Giuseppe Fornari, con gli anni, ha poi costruito su di essa una sua particolare visione filosofica che espone anche con incursioni nel mondo dell’arte.

Nel volume La verità di Caravaggio (Nomos Edizioni), per esempio, scioglie il complesso intreccio fra vita e opere di Michelangelo Merisi (che è il vero nome del pittore) offrendoci una lettura nuova e più profonda del suo genio creativo.

Anzitutto libera il campo dagli stereotipi, il primo dei quali è quello dell’artista maudit che, pur dovuto a una vita effettivamente turbolenta, occupa tutta la scena e impedisce spesso di capire il cuore, il segreto, del pittore lombardo.

Poi ci sono gli stereotipi colti. Quello che rappresenta Caravaggio come “pittore rivoluzionario e ‘eretico’” è già stato contrastato anche da Maurizio Calvesi che ha mostrato “un Caravaggio vicino alle posizioni controriformiste e lombarde di Carlo e Federico Borromeo”, “un pittore sapientemente religioso”.

Ferdinando Bologna si contrappone a Calvesi “sostenendo invece l’immagine di un Caravaggio certamente cattolico”, ma su posizioni “di fronda verso l’establishment ecclesiastico”, in linea con il nascente spirito scientifico.

Fornari mostra la debolezza di questa tesi, contestandone l’idea di “realismo”. Infine ironizza sul “passaggio acrobatico compiuto da molti intellettuali italiani dalle loro vecchie posizioni marxiste a uno scientismo acritico di matrice anglosassone”.

Gran parte del libro però è dedicata all’affascinante viaggio attraverso la vita e le opere di Caravaggio, in particolare – dopo il suo arrivo a Roma – al suo confronto “esplicito e capillare” con i capolavori lasciati, nel cuore della cristianità, dall’altro Michelangelo, il grande Buonarroti.

Un dialogo fra due giganti che farà risaltare in Caravaggio la sua “visione cristica e cristiana, e coscientemente cattolica, con buona pace di chi vuole laicizzare o protestantizzare ciò che appartiene alle fibre più riposte e profonde della nostra cultura”.

È noto che Caravaggio, nella Vocazione di san Matteo, “cita” esplicitamente una delle opere più celebri del Buonarroti, La creazione di Adamo della Cappella Sistina.

Infatti la mano di Gesù, che chiama Matteo, indicandolo, è proprio la mano di Adamo verso cui, nella Sistina, è proteso il Creatore che vuole infondergli la vita: Cristo è il “nuovo Adamo” che compie una “nuova creazione” (a Pietro, Caravaggio fa replicare il gesto di Gesù: sono i sacramenti della Chiesa).

Ma “il culmine della carriera romana” scrive Fornari “è raggiunto dall’artista con la Deposizione nel sepolcro, dipinta nel 1602-1603 per Santa Maria della Vallicella e pervenuta ala Pinacoteca Vaticana dopo le traversie del bottino napoleonico” (una delle opere pretese dai francesi).

Lì c’è una diversa citazione del Buonarroti, il quale, nella Pietà Bandini, aveva rappresentato con il proprio volto Nicodemo che sorregge il corpo di Cristo deposto dalla croce.

Anche Caravaggio, nella sua Deposizione, rappresenta Nicodemo con il volto del Buonarroti: “un omaggio spirituale sentito” scrive Fornari “in cui l’artista lombardo riconosce al toscano l’amore viscerale per Cristo, espresso dal gesto del suo Nicodemo di abbracciarne vigorosamente le gambe”.

Con quest’opera, “davanti all’intera Urbe Caravaggio dichiara la sua sostanziale comunione d’intenti, artistica e religiosa, col suo predecessore”.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 6 gennaio 2024

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