“Nell’intera storia dell’Italia unita, l’unico choc macroeconomico più grave di quello che si prospetta oggi si è avuto con la Seconda guerra mondiale”. Così ha scritto in un tweet di questi giorni Alberto Bagnaiindicando poi le statistiche reperibili sul sito della Banca d’Italia.

Ma dopo le devastazioni di quella guerra persa, l’Italia realizzò una rinascitache fece gridare al “miracolo” il mondo intero. Infatti passò alla storia come “il miracolo economico italiano”.

Prima della guerra eravamo un paese poco sviluppato, perlopiù analfabeta e agricolo, poi distrutto dai bombardamenti: in pochissimi anni diventammo una delle principali potenze industriali del mondo, conquistando la prosperità e la libertà.

Come fu possibile? Scoprirlo ci sarebbe oggi necessario per ripetere il “miracolo”.

LA BELLEZZA CHE SALVO’ L’ITALIA

Un grande economista americano, John Kenneth Galbraith, che fu stretto collaboratore dei presidenti Franklin Delano Roosevelt e John Kennedy, negli anni Ottanta formulò questa tesi: “L’Italia, partita da un dopoguerra disastroso, è diventata una delle principali potenze economiche. Per spiegare questo miracolo, nessuno può citare la superiorità della scienza e dell’ingegneria italiana, né la qualità del management industriale, né tantomeno l’efficacia della gestione amministrativa e politica, né infine la disciplina e la collaboratività dei sindacati e delle organizzazioni industriali. La ragione vera è che l’Italia ha incorporato nei suoi prodotti una componente essenziale di cultura e che città come Milano, Parma, Firenze, Siena, Venezia, Roma, Napoli e Palermo, pur avendo infrastrutture molto carenti possono vantare nel loro standard di vita una maggiore quantità di bellezza”.

Questo memorabile pensiero di Galbraith può sembrare poesia, ma contiene una profonda verità. Che però va spiegata. La parola bellezza dice unaforza morale che il popolo italiano del dopoguerra aveva in abbondanza dalla sua antica civiltà e che costituiva la sua identità. Non avevamo materie prime, ma avevamo una grande storia e un grande “capitale umano” nel presente.

Dal 1945 giungemmo agli anni Novanta come quarta potenza industriale del mondo: su 18 milioni di imprese presenti in Europa, quelle dislocate in Italia erano 5 milioni. Eravamo più ricchi di inglesi e francesi. Come fu possibile arrivare così in alto dalle macerie del dopoguerra?

COME ERAVAMO E COSA FACEMMO

Lo ha spiegato molto bene Sandro Fontana che, in un libro del 1998, individuava nella Lombardia il cuore del miracolo italiano che coinvolse poi tutta la penisola. Infatti il libro di Fontana aveva questo titolo: “La riscossa dei lombardi”. Sottotitolo: “Le origini del miracolo economico nella regione più laboriosa d’Europa 1929-1959” (Mondadori).

Fontana scriveva: “ultima arrivata fra le nazioni industrializzate del nostro continente, (l’Italia) è oggi al primo posto per imprenditorialità diffusa… e al primo posto anche come ‘valore aggiunto’, cioè come capacità di trasformare materie prime e, quindi, di esportare prodotti finiti… l’Italia si trova ai vertici della graduatoria europea anche per quanto riguarda la capacità di risparmio delle famiglie”.

Ecco cos’era accaduto. Già nel primo dopoguerra, nel territorio brianzolo, “si erano manifestati con prepotenza e intensità” scrive Fontana “i sintomi d’una industrializzazione rapida e diffusa, basata sul lavoro a domicilio e sulle piccole attività imprenditoriali, sulla figura del mezzadro-operaio e sull’incremento accelerato della proprietà contadina”.

Questo fermento si gelò durante il fascismo che puntava prevalentemente sulla grande industria. Ma, nel secondo dopoguerra, “con l’avvento della democrazia e con la liberalizzazione degli scambi… il ‘modello brianzolo’, si estende, quasi per gemmazione spontanea a tutta la fascia pedemontana della regione caratterizzata dalla presenza capillare della Chiesa Cattolica e dalla diffusione della piccola proprietà contadina”.

Dunque il segreto del miracolo economico italiano può essere racchiuso in questi elementi.

TRE PILASTRI

Primo: il capitale umano che aveva le sue radici nella forte mentalità cristiana degli italiani, i quali avevano avuto un’educazione popolare che faceva perno sul valore del lavoro e del sacrificio per la propria famiglia e per il bene comune.

In particolare la Lombardia, come ebbe a spiegare il cardinale Giacomo Biffi, grazie a san Carlo Borromeo, aveva assimilato a livello popolare l’insegnamento del Concilio tridentino, con la sottolineatura del “merito”, contro il luteranesimo: il merito legato alle opere, quindi all’etica del lavoro e del dovere, dentro la gioiosa speranza del mondo contadino (e non nel cupo orizzonte calvinista). Si esprimeva così la creatività caratteristica della nostra storia, la genialità italiana che aveva illuminato i secoli in tutti i campi.

Secondo elemento del successo: una classe dirigente intelligente e lungimirante che – in base alla “dottrina sociale” cattolica e anche per contrastare la presenza del più forte partito comunista d’occidente – fece dilagare la piccola proprietà familiare (sia nell’agricoltura che nell’artigianato, nell’industria e nel commercio) liberando tutte le energie di lavoro e di inventiva.

Terzo: l’aiuto degli Stati Uniti con il Piano Marshall e la sovranità monetaria che permise di fare le politiche economiche che servivano al Paese, in una linea di difesa dell’interesse nazionale che portò anche alla creazione dell’Eni di Enrico Mattei (senza l’Eni e quello che significò per l’approvvigionamento energetico tutto sarebbe stato più difficile).

E OGGI?

Abbiamo oggi queste tre fondamentali risorse? Purtroppo la risposta è no, quasi su tutto.

Primo. Si è molto indebolito il substrato di valori tradizionali (anche per la dissoluzione della Chiesa), tuttavia resiste una certa capacità di lavoro e di sacrificio degli italiani, con la loro proverbiale creatività e resiste, nel popolo, un certo patriottismo.

Secondo. Non abbiamo più una classe dirigente lungimirante che con intelligenza sostenga l’intrapresa e il lavoro. Anzi, oggi si fa l’esatto contrario, vessando gli italiani che lavorano con norme cervellotiche, burocrazie soffocanti e tassazioni infernali. Con l’emergenza Covid in pratica si è dato il colpo di grazia all’Italia produttiva e non si vedono all’orizzonte misure che aiutino la ripresa.

Terzo. Sul piano internazionale ci siamo allontanati dalla storica alleanza, anche economica, con gli Stati Uniti per avvicinarci alla tirannia cinese che negli ultimi 25 anni ha messo fuori mercato l’industria occidentale (e non dimentichiamo che è dalla Cina che ci è arrivato il devastante “regalo” del Covid).

Inoltre la classe dirigente italiana ha rinunciato alla piena sovranità, anzitutto alla sovranità monetaria, privando così il paese della propria moneta, prezioso strumento di politica economica (con l’euro abbiamo pagato un prezzo salatissimo: venti anni di collasso produttivo).

Infine abbiamo rinunciato alla difesa dei nostri interessi nazionali (e perfino dei nostri confini) e siamo nella UE il vaso di coccio delle scelte economiche che privilegiano i paesi egemoni (in primis la Germania) svantaggiando noi.

Ciò significa che non c’è quasi nessuna delle condizioni necessarie per ripetere il “miracolo economico” del dopoguerra. O si verifica una svolta storica, grande e decisa, nel nostro Paese, o siamo condannati veramente alla rovina economica e civile.

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Antonio Socci

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Da “Libero”, 10 maggio 2020