La Santa Sede continua a far notizia per le questioni economiche. Pochi giorni fa il papa, vista la grave crisi finanziaria del Vaticano, ha disposto tagli alle retribuzioni per tutti, pure per i cardinali: lì non ci sono sindacati che protestano e il papa decide come un monarca.

Inoltre ieri, inaugurando l’Anno giudiziario del Tribunale del suo Stato, il pontefice ha ricordato “le iniziative per l’assoluta trasparenza delle attività istituzionali dello Stato vaticano, soprattutto nel campo economico e finanziario”, sottolineando che devono essere sempre “ispirate ai principi fondanti della vita ecclesiale e, al tempo stesso” devono tenere “debito conto dei parametri e delle ‘buone pratiche’ correnti a livello internazionale” cosicché “appaiano esemplari, come si impone a una realtà quale la Chiesa Cattolica”.

Quindi ha chiesto a chi lavora nello Stato Vaticano di aiutare la Chiesa a “dare buon esempio di ciò che insegna nel suo magistero sociale“. Infine ha aggiunto: “Tutti gli operatori in questo settore, e tutti i titolari di incarichi istituzionali tengano dunque una condotta che, mentre denota un fattivo ravvedimento – ove occorra – riguardo al pa ssato, sia anche irreprensibile ed esemplare per il presente e il futuro”.

Sono parole sacrosante, quelle che ci si aspetta da un papa, ma ci si chiede a chi si rivolga l’invito al ravvedimento.

Gli otto anni di questo pontificato sono stati una sequela di nomine, polemiche, dimissioni, esclusioni e defenestrazioni (non ricordo autocritiche). A molti osservatori è sembrato il tutti contro tutti. Spesso non si sono capite le colpe specifiche imputate a qualche silurato. Nessuno è mai riuscito a raccapezzarsi. La trasparenza non è stata granché.

L’ultima notizia di questi giorni suscita nuove domande e perplessità. La riprendo da un titolo di “Repubblica”: “Palazzo di Londra: ‘Torzi non ricattò la Santa Sede’. Colpo all’inchiesta vaticana dai giudici inglesi”. Sottotitolo: Per la corte inglese l’acquisto dell’immobile di Sloane Avenue fu un’operazione regolare. Annullato il sequestro di denaro inflitto al broker molisano”.

Difficile capirci qualcosa, specialmente per chi, come me – pur occupandosi della Chiesa da decenni – ritiene secondario il tema delle finanze vaticane, che sono invece un ginepraio estremamente attraente per i media, i quali da sempre vanno a caccia di problemi clericali e magari di scandali.

Anche perché spesso i media fanno del moralismo pretendendo che la Chiesa sia povera in canna, come se un’istituzione che guida 1 miliardo e 300 milioni di fedeli sparsi sul pianeta, la confessione religiosa più grande, con una presenza in ogni paese del mondo, con migliaia di missionari, opere di carità e assistenza, ospedali, istituzioni educative, seminari, istituti religiosi, non dovesse avere mezzi di sussistenza (i quali sono necessari anche allo stesso Stato vaticano che serve la missione universale del papa).

Il moralismo dei media purtroppo, negli ultimi anni, ha trovato giustificazione nelle parole dello stesso papa Francesco il quale ripete: “voglio una Chiesa povera per i poveri”. In realtà ai poveri servirebbe una Chiesa che ha i mezzi per soccorrerli. Una Chiesa povera può fare poco per alleviare le loro miserie materiali.

Casomai sono gli uomini di Chiesa che dovrebbero vivere – se non in povertà – almeno in modo austero. Ma anche qui è facile scivolare nel moralismo e il pauperismo spesso risulta controproducente.

Lo si è visto nei mesi scorsi quando, a margine dell’ennesimo caso mediatico, su “Repubblica” è uscito questo titolo: “Il sacco del Vaticano: ‘Svuotato anche il conto del Papa’”. Sottotitolo: “Prelevati perfino 20 milioni di sterline dal deposito riservato di Francesco”.

Un vaticanista storico e autorevole come Aldo Maria Valli ha scritto: Mi occupo di Vaticano da anni, ma non avevo mai sentito parlare di conti riservati intestati ai papi.

Ovviamente che il Papa abbia un proprio conto non è di per sé una cosa criticabile. Fa notizia casomai (oltreché per l’entità, effettivamente notevole) perché l’attuale pontefice di solito parla del denaro come qualcosa di negativo (“San Pietro non aveva un conto in banca”, disse nell’omelia dell’11 giugno 2013).

Anche la sua scelta del nome “Francesco” intendeva affermare l’importanza assoluta del tema della povertà. Tuttavia spesso si equivoca.

Per i cristiani la povertà economica non è un valore: lo è la povertà evangelica, che significa essere distaccati dai beni di questo mondo, usarli con carità e vivere sapendo che la vita vera è quella eterna.

San Francesco, che era nato ricco, volle vivere anche in povertà materiale, ma era la sua personale e libera scelta di vita, che aveva un significato spirituale, cristologico. Il santo non si sognava nemmeno lontanamente di sperare che il prossimo s’impoverisse e finisse in miseria e con lui tutta la società.

Quindi in Vaticano – oltre alle tanto annunciate riforme delle finanze, che sembra non si realizzino mai – bisognerebbe sistemare un po’ anche le parole e i concetti sul tema del denaro. Ovvero la dottrina.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 28 marzo 2021

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