Si ritiene che in Italia ci siano circa 95 mila chiese, di cui almeno 85 mila sarebbero beni culturali. Non sono soltanto luoghi di culto, ma anche scrigni di bellezza, di spiritualità e di memoria, che raccontano secoli di vita delle comunità delle nostre città e dei nostri paesi. Sono di proprietà della Chiesa, ma anche dello Stato, degli enti locali e di privati cittadini.

Un paio di anni fa lo storico dell’arte Tomaso Montanari, con un suo bellissimo libro, “Chiese chiuse” (Einaudi), lanciò un grido di allarme e di dolore: “Oggi, questo straordinario patrimonio pubblico – che contiene alcuni degli apici della storia dell’arte universale – è in gran parte privatizzato nei fatti: cioè negato. Sono sempre di più le chiese accessibili a pagamento, o destinate ad attività economiche redditizie o addirittura alienate. E sono tantissime quelle di cui siamo privati nel modo più radicale: a causa del loro abbandono, del loro degrado. A volte, del loro crollo. O, semplicemente, a causa della loro chiusura”.

Il fenomeno delle chiese destinate a fini estranei, a causa della secolarizzazione, è drammatico in molti paesi europei, ma comincia a porsi anche in Italia e la Chiesa si interroga.

“A fine novembre del 2018” ricorda Sandro Magister nel suo blog Settimo cielo “il pontificio consiglio della cultura presieduto dal cardinale Gianfranco Ravasi promosse un convegno alla Pontificia Università Gregoriana con delegati degli episcopati di Europa e Nordamerica, dal titolo: ‘Dio non abita più qui’. Ne scaturirono delle ‘linee guida’ che sconsigliavano ‘riutilizzi commerciali a scopo speculativo’ e incoraggiavano invece ‘riutilizzi a scopo solidale’, con finalità ‘culturali o sociali’: musei, aule per conferenze, librerie, biblioteche, archivi, laboratori artistici, centri Caritas, ambulatori, mense per i poveri e altro”.

È un’ipotesi, ma un po’ superficiale. Papa Francesco nella Laudato si’scrive: “insieme al patrimonio naturale, vi è un patrimonio storico, artistico e culturale, ugualmente minacciato. È parte dell’identità comune di un luogo e base per costruire una città abitabile… Bisogna integrare la storia, la cultura e l’architettura di un determinato luogo, salvaguardandone l’identità originale”.

L’ultimo numero di “Vita e pensiero” ospita un intervento di don Giuliano Zanchi dal titolo “Diversamente chiese, la posta in gioco”, che prova a cercare quell’identità originale.

Zanchi rileva che, seppure secolarizzati, gli uomini di questo tempo vivono la bellezza artistica come “indicatore di trascendenza”. Questo “culto sociale” della bellezza riguarda anche gli agnostici e “il sacro storico di molti edifici religiosi non più funzionanti come luoghi della liturgia ha tutte le qualità per poter ospitare questi bisogni sociali così radicati e candidarsi a funzionare come vero crocevia di una ‘fraternità culturale’”.

Ciò significa che queste chiese possono diventare luoghi di confinecapaci di aprire uno spazio esistenziale, “capaci di indirizzare verso il profondo e il trascendente”, intercettando un “desiderio di spiritualità”diffuso “nelle nostre città, che restano impietosamente orizzontali”.

Simone Weil scriveva: “In tutto quel che suscita in noi il sentimento puro ed autentico del bello, c’è realmente la presenza di Dio”.

Gli edifici sacri “chiusi” possono così ritrovare vita diventando soglie dell’infinito e porte della Bellezza. Occorre però una Chiesa capace di incontrare la domanda di significato e le solitudini di quest’epoca iperconnessa.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 18 febbraio 2023

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