Ovidio ci fa un baffo. Il tempo delle metamorfosi – veloci e continue – è il nostro. Specialmente nel mondo che si definisce progressista (qualunque cosa voglia dire). Ormai tutti possono diventare tutto, in una transizione senza fine e senza approdi solidi.

Il testacoda identitario più surreale, quasi tragicomico, lo ha segnalato nei giorni scorsi Leonardo Panetta, giornalista di Mediaset, che ha illustrato, con un tweet e un video, un fenomeno stupefacente: “Alla Università della California, occupata dai manifestanti pro-Palestina, studenti progressisti fino all’altro ieri atei-gender fluid e così via si uniscono alla preghiera dei compagni di religione islamica. Nemmeno Houellebecq in Sottomissione aveva immaginato una scena così”.

Chissà se questi manifestanti si trasferiranno in una università islamica, magari in Iran per urlare contro l’Occidente come “Grande Satana”, così i più radicali da comunisti potrebbero pure farsi khomeinisti.

Douglas Murray, nella Pazzia delle folle ha osservato che “i figli ideologici dei marxisti nelle politiche dell’identità e nell’intersezionalità sembrano felici di abitare uno spazio dell’ideologia ingombro di incoerenze, assurdità e ipocrisia”.

Ma veniamo alle metamorfosi dei “figli ideologici dei marxisti” di casa nostra. Anzitutto quelle del Pd che, dal 1989 quando era ancora Pci, è lo specialista più spericolato.

L’esempio più recente è la candidatura di pacifisti assoluti come Cecilia Strada (addirittura capolista) e di Marco Tarquinio in quel partito che, con Letta segretario, era il gendarme dell’atlantismo, pronto ad accusare chiunque di putinismo. Ora perfino il Corriere della sera titola: “Se i ‘pacifisti’ incrinano l’atlantismo della sinistra”.

C’eravamo appena abituati ad avere una sinistra atlantista (e belligerante), che aveva archiviato il passato comunista (rimuovendolo, senza tante autocritiche), ed eccola che ritorna un po’ “anti”, mescolando atlantisti e pacifisti.

Del resto va di gran moda rimangiarsi tutto quello che si è detto e fatto, per riproporsi al comando con idee opposte. Lo ha dimostrato il recente intervento di Mario Draghi sull’Europa.

L’ex premier ed ex presidente della Bce ha disinvoltamente spiegato che finora, per la competitività, si sono prodigati per impoverirci. Ecco la sua autocritica: “Abbiamo perseguito una strategia deliberata volta a ridurre i costi salariali gli uni rispetto agli altri e, combinando ciò con una politica fiscale pro-ciclica, l’effetto netto è stato solo quello di indebolire la nostra domanda interna e minare il nostro modello sociale”.

Ora Draghi dice che ha cambiato radicalmente idea (o meglio: la realtà ha dimostrato che sbagliava) e così è pronto a fare il contrario…

Anche il leader della Cgil, Maurizio Landini, il primo maggio, ha proclamato su Repubblica che le manifestazioni esprimevano “la voglia di costruire un’Europa sociale non solo di mercato” per “mettere in discussione le politiche di austerità e la logica dei tagli allo stato sociale”.

Ma la Cgil in questi anni ha lottato contro l’UE? E perché Landini non nomina chi, per decenni, ha sostenuto queste politiche della UE e quali giornali e partiti italiani le hanno esaltate?

Sarebbe stato interessante anche ricordare chi si è opposto a quelle politiche, prendendosi i fulmini di certi giornaloni e di una certa sinistra che incenerivano i critici come “antieuropeisti”, “sovranisti” e via scomunicando.

Restiamo ai giornali del gruppo Gedi. Il primo maggio una filippica operaista appariva sulla prima pagina della Stampa. Si concludeva così: “Cosa è rimasto della classe lavoratrice? Di quella niente, perché ne è stata da tempo decretata la fine, l’estinzione (…) ma non per questo sono finite le classi, infatti la classe del capitale è viva, eccome. Tanto viva che la sua festa è tutti i giorni”.

Questo editoriale, molto di sinistra, firmato da Maurizio Maggiani, è uscito sulla prima pagina della Stampa che è lo storico quotidiano della famiglia Agnelli-Elkann che della “classe capitalista” dovrebbe pur sapere qualcosa. Come sull’“estinzione della classe lavoratrice”.

Maggiani avrebbe potuto applicare la sua filippica operaista a un caso concreto come quello della Fiat (di ciò che ne rimane). Ma non lo ha fatto.

Anche in un altro passo del suo articolo resta nel vago. Scrive infatti, parlando degli operai: “il loro lavoro vale sempre meno, quando non vale niente e sono costretti a venderlo al peggior offerente, visto che il migliore non esiste; perché non c’è il futuro del Paese da edificare ma solo da gratificare gli azionisti con i profitti trimestrali succhiati via dalla palude della sua stagnazione”.

Sarebbe interessante conoscere il parere di John Elkann, presidente di Gedi e anche di Stellantis. Ma forse era occupato a marciare in qualche manifestazione del Primo maggio.

Del resto Massimo Giannini, che della Stampa è stato direttore e ora è di nuovo editorialista di Repubblica (l’altro giornale Gedi), ha vergato un editoriale sul Venerdì che lo fa somigliare al vecchio Marx: “il valore fondante di quest’epoca non è il Lavoro, svilito, tradito. È il Capitale, dominante, mutante”. Poi se la prende con “quella ‘simpatica canaglia’ di Elon Musk”, perché, nonostante si sia sforzato, non gli sono venuti in mente Capitalisti più prossimi. Fiat voluntas tua, compagno Giannini.

Sembra di leggere il Manifesto anche quando si sfoglia Avvenire e non solo nelle pagine di politica e di questioni sociali. Perfino nella cultura.

L’altro ieri, in un lungo articolo su Pasolini, Massimiliano Castellani – dopo aver scritto en passant che il regista, il 2 novembre 1975, “ce l’ha strappato via un omicidio forse di Stato” (sic!) – scrive che Pasolini aveva in progetto un film su san Paolo che poteva “diventare un capitolo definitivo, quanto sferzante, per le coscienza del nostro popolo, anestetizzato da quella politica malsana che da allora ci governa”.

A parte questa qualunquistica affermazione senza capo né coda (a quel tempo lo statista più importante e influente in Italia era Aldo Moro e non risulta che Moro “da allora” ci governi), fa un certo effetto leggere – sul giornale dei vescovi – una così sommaria, sprezzante e disinvolta liquidazione della Democrazia Cristiana (anche considerando che il principale “sostenitore” di quella Dc e di Moro si chiamava Paolo VI ed era il Papa).

Ma siamo – si diceva – nell’epoca delle vorticose metamorfosi, nella transizione universale, con smarrimenti di identità e testacoda spettacolari. Sennonché la fluidità delle identità finisce, ad un certo punto, allo stato gassoso e si dissolve.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 5 maggio 2024