L’UMANITA’ HA BISOGNO DI UNA CHIESA CHE ANZITUTTO PARLI DI DIO E DELL’ETERNITA’, NON DI CLIMA, ALGORITMI O CITTADINANZA (OLTRETUTTO CON GLI ARGOMENTI SBAGLIATI DELLA CGIL)
“Dio, infinitamente perfetto e beato in se stesso, per un disegno di pura bontà, ha liberamente creato l’uomo per renderlo partecipe della sua vita beata. Per questo, in ogni tempo e in ogni luogo, egli è vicino all’uomo. Lo chiama e lo aiuta a cercarlo, a conoscerlo e ad amarlo con tutte le forze. Convoca tutti gli uomini, che il peccato ha disperso, nell’unità della sua famiglia, la Chiesa. Per fare ciò, nella pienezza dei tempi ha mandato il Figlio suo come Redentore e Salvatore. In lui e mediante lui, Dio chiama gli uomini a diventare, nello Spirito Santo, suoi figli adottivi e perciò eredi della sua vita beata”.
Questo brano è l’inizio del Catechismo della Chiesa Cattolica, approvato definitivamente da Giovanni Paolo II nel 1997. È un libro bellissimo, anche dal punto di vista letterario. È uno dei pilastri del pontificato wojtyliano. Ma chi lo conosce? Neanche molti preti lo hanno letto e lo usano.
Fra i cattolici – anche membri e dirigenti di movimenti e associazioni cattoliche – dilaga una drammatica ignoranza dell’abc della dottrina cattolica. Non pochi fedeli praticanti ignorano i fondamenti del cattolicesimo, molti non sanno rendere ragione della loro fede e tanti si allontanano da una fede che nessuno ha mai spiegato loro.
Eppure questo Catechismo – che fra l’altro attinge alla Sacra Scrittura, ai Padri e ai Dottori della Chiesa, ai Santi, alla liturgia e al Magistero millenario della Chiesa – non è certo un freddo e burocratico formulario di astrazioni. È piuttosto una cattedrale, piena di poesia e piena di luce, perché davvero illumina la ragione e la condizione umana.
Quest’opera che la Chiesa ha donato a tutti i suoi figli dà risposta, fin dalle prime righe (che ho citato), alla domanda delle domande, quella che ha assillato i poeti e i filosofi di tutti i tempi, quella che brucia nel cuore di tutti gli esseri umani: chi sono io? Cosa ci faccio qui? Qual è il senso della mia vita?
Parla infatti della felicità di Dio, una infinita felicità, e annuncia che “per pura bontà”, per amore, “ha liberamente creato” la creatura umana perché partecipasse della sua immensa felicità per sempre.
Che si tratti di una felicità indescrivibile, impossibile da raccontare con il linguaggio, lo ripete continuamente Dante nel suo Paradiso. E c’è un motivo: perché significa “indiarsi”, cioè la nostra divinizzazione, che, dopo la resurrezione dei nostri corpi, investirà anche la carne. Saremo dèi, per grazia. “Il Figlio di Dio si è fatto uomo per farci Dio”, scriveva S. Atanasio (citato nel Catechismo n. 460).
Si può dimostrare che la nostra natura, il nostro io profondo, cioè la nostra anima è fatta proprio per quella felicità ignota e misteriosa? Sì, perché è piena di nostalgia e di desiderio per qualcosa che non sa dire cos’è. Cerca dappertutto e nulla la soddisfa mai, perché è fatta per quell’estasi. Fernando Pessoa annotava: “La letteratura, come tutta l’arte, è la confessione che la vita non basta”.
Non basta tutto il mondo. Tutti, sempre, cercano una felicità che non trovano. In Grammatiche della creazione (Garzanti), George Steiner – un grande intellettuale agnostico, di famiglia ebraica – scriveva: “L’intuizione […] o la congettura, così stranamente resistente a ogni confutazione, che esista un’‘alterità’ irraggiungibile conferisce alla nostra esistenza elementare una pulsazione d’insoddisfazione. Siamo le creature di una grande sete, ossessionate dal ritorno a una casa che non abbiamo mai conosciuto. […] Più che homo sapiens, l’uomo è homo quaerens”.
Antonio Socci
Da “Libero”, 31 maggio 2025