Ultimamente si leggono cose curiose su Antonio Gramsci e la cosiddetta “egemonia culturale”. Secondo Maura Gancitano (Repubblica, 13/1), “per come la intendeva Antonio Gramsci l’egemonia doveva essere un potere acquisito dalle persone comuni, soprattutto quelle ai margini della società e non una selezione operata da pochi. Qualcosa di plurale, condiviso, molteplice” e non “un autoritarismo culturale”.

Non si sa da dove Gancitano ricavi questa idea. Ma ieri lo storico Giuseppe Vacca, già dirigente e parlamentare del Pci, poi Pds, docente universitario, direttore e poi presidente dell’Istituto Gramsci, intervistato da “Libero”, ha chiarito molte cose.

LA VERA EGEMONIA

In particolare ha fatto capire che Gramsci, “grande pensatore politico del Novecento”, era comunista e non certo un liberale.

Ma soprattutto Vacca ha spazzato via l’interpretazione “liberale” dell’egemonia culturale chiarendo che il pensatore sardo non parla mai di “egemonia culturale”, se non una volta, en passant:  “per Gramsci l’egemonia è politica, anche se in una società complessa come quella novecentesca il fattore culturale ha un peso rilevante nella costituzione del politico. Il dominio politico, detto in altre parole, è per Gramsci un mix di forza e consenso, coercizione e persuasione”.

La sintesi di Vacca è chiara e corretta. Corrisponde a quanto scriveva, molti anni fa, un profondo studioso cattolico di Gramsci, Augusto del Noce, nel libro Il suicidio della rivoluzione (Rusconi).

Del Noce ricordava la pagina decisiva di Gramsci sul “partito moderno Principe” che illustra il pensiero gramsciano sull’egemonia: “Il moderno Principe, sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in quando ha come punto di riferimento il moderno Principe stesso e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo. Il Principe prende il posto, nelle coscienze, della divinità o dell’imperativo categorico, diventa la base di un laicismo moderno e di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume”.

Si incornici questa pagina mandando tanti cari saluti alla morale kantiana e alla cultura liberale.

FINE DELL’EQUIVOCO

Del Noce commenta: “Già troppe volte ho detto dell’impossibilità di interpretare il suo pensiero in senso riformistico o socialdemocratico. ‘Riforma intellettuale e morale’ vuol dire radicalizzazione estrema della rivoluzione, come formazione intellettuale e morale dell’uomo nuovo, non affatto abbandono della frattura rivoluzionaria. Non bisogna quindi stupirsi della durezza che affiora in certi passi come in quello, celebre, sulla distinzione tra ‘dominio’ e ‘direzione intellettuale e morale’, termini intercambiabili con ‘dittatura’ ed ‘egemonia’”.

Leggiamo allora quella pagina gramsciana a cui Del Noce si riferisce: “Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che tende a ‘liquidare’ o a sottomettere anche con la forza armata ed è dirigente dei gruppi affini e alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere e anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante, ma deve continuare a essere ‘dirigente’”.

Vi pare che si possa parlare di “qualcosa di plurale, condiviso, molteplice”, come si è letto su Repubblica?

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 20 gennaio 2024

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