“Un tale, che era un agente segreto, parcheggiò in una piazza… e salì sull’autobus… Alla prima fermata… vide due ragazze che si sedevano sui sedili liberi davanti a lui. La ragazza di sinistra aveva i capelli color bronzo… Chi le ha annodato il nastro con tanta cura, pensò… Poi attese il momento in cui si sarebbe voltata verso l’amica e lui vide i tratti del suo viso, spalancò la bocca in un urlo soffocato in gola…”.

Poi l’agente segreto scrive: “Non so perché credevo che avrei saputo in anticipo che stavo per incontrarla. In ogni caso, non immaginavo che sarebbe successo così all’improvviso. Ma è successo. L’ho vista d’un tratto sedersi davanti a me sull’autobus. Non ho avuto alcuna difficoltà a riconoscerla”.

UN CAPOLAVORO

È l’inizio del “Minotauro” (Edizioni e/o) di Benjamin Tammuz. Un romanzo straordinario che ti cattura fin dalla prima riga e non ti molla più. Quando uscì (nel 1980 in Israele e l’anno dopo in inglese) fu giudicato da Graham Greene il miglior romanzo tradotto di quell’anno.

Narra la vicenda – straordinariamente avvincente – di un agente segreto israeliano ed è ambientata negli anni tumultuosi del conflitto israelo-palestinese. Eppure – pur così ancorata alla storia e, in questi giorni si direbbe, addirittura alla cronaca – traspare in essa un dramma metafisico e metastorico, nella forma di una spy story e di una struggente storia d’amore (d’altra parte il Cantico dei Cantici – che è un meraviglioso poema – è nella Bibbia come storia dell’amore fra Dio e il suo popolo, ovvero fra Dio e l’anima dell’uomo).

Tammuz, nato a Charkiv (Ucraina) nel 1919 e morto a Gerusalemme nel 1989, emigrò a cinque anni con la famiglia, dall’Urss, in quella terra in cui, anni dopo, sarebbe nato lo stato d’Israele (che a quel tempo, finito l’impero turco-ottomano, era sotto mandato britannico).

Frequentò il liceo ebraico a Tel Aviv e si laureò, a Parigi, alla Sorbona. Da giovane aderì a un movimento comunista.  Si dedicò a scultura, pittura, musica e scrittura. Dal 1948 lavorò per vari giornali, occupandosi in particolare di critica d’arte. Negli anni Settanta fu addetto culturale all’ambasciata israeliana a Londra.

Aveva idee di sinistra e credeva nella convivenza pacifica di ebrei e palestinesi. Nel “Minotauro” è evidente il paradosso di questi popoli fratelli che si trovano a combattersi in una lotta insensata.

Ma traspare anche un sentimento di fratellanza che unisce i popoli mediterranei in una comunione che ha a che fare con la musica – Mozart in particolare – e l’idea che la musica sia un mistero che ha a che fare con Dio. E qui siamo al cuore del romanzo.

PRESENZA INVISIBILE

È il paradosso di un grande amore in cui l’agente segreto e la ragazza non si incontreranno mai. Se non di sfuggita, nel finale, quando lui viene ucciso. È dunque anche la storia di una lunga attesa. Come quella del popolo ebraico con Dio.

Tutto il loro rapporto è epistolare (come per Israele il rapporto con Dio passa attraverso la scrittura). L’agente segreto scrive alla ragazza: “Non avrai mai l’occasione di farmi delle domande, ma la mia voce ti giungerà nelle lettere, e io so che le leggerai … da quando ho memoria di me, io ti ho cercata. Mi era chiaro che tu esistevi, ma non sapevo dove”.

La ragazza, Thea (dèa in greco), è commossa dall’amore appassionato di quello “Sconosciuto” e gli scrive: “nessuno vede le cose belle che tu vedi in me. Mi abitui a qualcosa che nessuno mi darà mai. Io voglio vederti”. E poi: “Dammi un segno”, “fino a quando sarai Sconosciuto?”.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 16 ottobre 2023