È noto che fra l’8 settembre 1943 e la Liberazione, tante chiese e conventi dettero rifugio a perseguitati e ricercati dai nazifascisti, in particolare ebrei che la sanguinaria ideologia hitleriana aveva destinato allo sterminio. A Roma – secondo lo storico Renzo De Felice – furono circa 150 questi istituti religiosi.

LA SCOPERTA

Nei giorni scorsi è stato reso noto che nell’archivio del Pontificio istituto biblico si è ritrovato un documento di grande valore, l’elenco delle 4.300 persone che a Roma furono salvate da quest’opera di accoglienza clandestina, con l’identificazione di 3.600 nominativi. Dall’incrocio con i documenti della Comunità ebraica romana risulta che 3.200 di loro erano sicuramente ebrei.

Per una pura coincidenza temporale questa scoperta è stata fatta alla vigilia della beatificazione della famiglia Ulma, la cui vicenda mostra cosa accadeva a chi, in quei mesi tremendi, nascondeva ebrei, quando venivano scoperti.

Infatti domani la Chiesa proclama martiri e beati i nove componenti di questa famiglia polacca – composta da padre, madre e sette figli (uno dei quali ancora nel grembo materno) – massacrati dai nazisti a Markowa nel 1944 per aver ospitato e nascosto otto ebrei delle famiglie Goldman, Grünfeld e Didner (che furono subito uccisi con loro).

La storia degli Ulma – raccontata nel bel libro di Manuela Tulli e Pawel Rytel-Adrianik, “Uccisero anche i bambini” (Ares) – conferma, come già era noto, che non solo a Roma la Chiesa dette rifugio a migliaia di ebrei per salvarli dallo sterminio, ma così fece anche nel resto d’Italia e d’Europa. E quest’opera – santa e rischiosissima – era direttamente ispirata da Pio XII (lui stesso peraltro rischiava la deportazione).

In secondo luogo mostra che non furono solo parrocchie, conventi e congregazioni religiose a farlo, ma anche i semplici cristiani. Infatti nel libro sugli Ulma si spiega che “gli ebrei furono nascosti a Markowa da diverse famiglie”.

STORIA ESEMPLARE

La motivazione di una scelta così rischiosa era la fede. Józef e Wiktoria Ulma erano non solo praticanti, ma anche impegnati nella parrocchia e nelle varie iniziative dell’associazionismo cattolico.

Nella loro Bibbia, ritrovata dopo il massacro nella loro casa, c’era un passo del Vangelo di Luca che avevano sottolineato in rosso (con un “sì” scritto a penna), era il capitolo intitolato: “Il buon samaritano”. La parabola dove Gesù insegna l’amore.

“L’esempio di questa famiglia eroica che ha sacrificato la propria vita pur di salvare i perseguitati ebrei”, ha detto Papa Francesco in una recente udienza in Piazza San Pietro, “vi aiuti a comprendere che la santità e i gesti eroici si raggiungono attraverso la fedeltà nelle piccole cose quotidiane”.

Considerata la vicenda il Pontefice ha autorizzato una beatificazione di gruppo che ha precedenti nell’antichità cristiana, ma che per l’epoca moderna e le attuali procedure è una novità.

Come pure la beatificazione di un bambino che era ancora nel grembo per il quale il card. Semeraro, Prefetto del Dicastero per le cause dei santi, ha evocato l’episodio evangelico dei Santi Innocenti che furono fatti uccidere da Erode.

Forse questa storia, tragica e gloriosa, di vita quotidiana non avrà l’attenzione dei media, né ci sarà un regista famoso che la racconterà, ma la Chiesa esalta l’eroismo dell’amore e richiama lo sguardo sulle vittime delle persecuzioni e dell’odio. È un invito alla riflessione e anche una bella sfida al mondo, alle sue graduatorie di grandezza o alle celebrità mediatiche.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 9 settembre 2023

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