Nei giorni scorsi è scoppiata una guerra sul Natale nelle scuole. Ma il problema non è il presepe, è l’ignoranza e il dominio del “secondo me”.

Carlo Giovanardi ha giustamente ricordato un fatto dimenticato da tutti: “Il 25 dicembre, Natale, è una festività cattolica di precetto come tale riconosciuta dallo Stato anche agli effetti civili sin dal tempo dell’Unità d’Italia (decreto 17 ottobre 1860, n. 5342)”.

Faccio presente che il governo del Regno d’Italia a quel tempo era fatto di politici che erano in guerra con la Chiesa e una guerra molto dura, dopo le leggi Siccardi e quelle sulla soppressione degli ordini religiosi: uno scontro che portò anche alle scomuniche.

Eppure quella legge riconosceva la festa del Natale, la nascita dell’Uomo-Dio, come festa dello stato laico risorgimentale.

Dopo il Regno d’Italia arriva la Repubblica e il Natale (che per la Chiesa è “la Gloria del Cielo che si manifesta nella debolezza di un bambino”), viene riconosciuto come festa: in base alla legge della Repubblica 27 maggio 1949 n. 260, il 25 dicembre è “giorno festivo con l’osservanza del completo orario festivo e del divieto di compiere determinati atti giuridici”.

Cioè – spiega Giovanardi – lo Stato laico riconosce la festività cattolica del Natale come sua festa civile. Esattamente come istituì la festa nazionale del 4 novembre (oggi soppressa), la festa della Repubblica il 2 giugno o il 25 aprile come festa della Liberazione e il 1° Maggio come festa dei lavoratori.

Quest’ultima – com’è noto – è una festa nata nell’alveo del movimento socialista, ma è stata riconosciuta come festa civile e oggi è festa di tutti.

E’ ovvio che una scuola che fa fare vacanza ai ragazzi per il 1° Maggio o per il 25 aprile debba spiegare loro perché fanno vacanza e cosa si celebra.

Così come è ovvio che, dando quindici giorni di festa ai ragazzi, per il Natale, si spieghi chi e cosa si festeggia: non “l’inverno” o altre corbellerie, ma la nascita di Gesù Cristo. E a Pasqua non si celebra la pace, ma la Resurrezione di Gesù.

Questo taglia la testa al toro, spazzando via tutte le chiacchiere sulla “scuola laica” che non dovrebbe parlare del Natale cristiano o della Pasqua.

INTEGRAZIONE

Tanto più dovrà spiegarlo agli studenti immigrati e di altre religioni: proprio a scuola questi giovani possono imparare un fatto fondamentale della nostra cultura, quel fatto in base al quale si dice che oggi siamo nel 2015 (perché si computano gli anni a partire dalla nascita di Gesù), quel fatto per cui abbiamo la settimana e la domenica facciamo festa.

Il fatto cristiano, che è rappresentato in gran parte del nostro patrimonio artistico, ha “inventato” le Cattedrali, gli ospedali e le università.

Anche la nostra lingua ha lì la sua origine, perché l’italiano è una lingua istituita avendo come paradigma il Poema sacro, la Divina Commedia, ed ha il Cantico delle creature come sua prima opera poetica (Cantico scritto dallo stesso san Francesco che ha “inventato” il presepio).

Se volessimo scavare nella nostra storia scopriremmo che pure l’Europa è stata forgiata dalla storia cristiana e così il diritto internazionale (vedi la Scuola teologica di Salamanca), così le banche (prima c’erano perlopiù usurai) e il sistema economico moderno.

Ma perfino le nostre delizie gastronomiche – dal parmigiano, al prosciutto alla spumante – ci portano nelle abbazie medievali che insegnarono l’agricoltura a un’Europa barbarica e trasmisero la cultura classica e quella ebraica e inventarono la notazione musicale. Pure le origini della nostra tecnologia e della nostra scienza vanno cercate lì.

’68 E DINTORNI

Don Lorenzo Milani, che la Sinistra ritiene da decenni un prete dei suoi (ma lui se ne faceva beffe), scrisse, con i ragazzi della scuola di Barbiana, “Lettera a una professoressa”, un libro che veniva sbandierato dai Sessantottini come il loro testo di riferimento per la contestazione della “scuola borghese”.

Bene, credo che lo abbiano letto poco. Infatti, in quel libro, Don Milani, contestando il tempo che la scuola dedica ai classici, prosegue:

“Neanche un minuto solo sul Vangelo. Non dite che il Vangelo tocca ai preti. Anche levando il problema religioso restava il libro da studiare in ogni scuola e in ogni classe. A letteratura il capitolo più lungo toccava al libro che più ha lasciato il segno, quello che ha varcato le frontiere. A geografia il capitolo più particolareggiato doveva essere la Palestina. A storia i fatti che hanno preceduto, accompagnato e seguito la vita del Signore. In più occorreva una materia apposta: scorsa sull’Antico Testamento, lettura del Vangelo su una sinossi, critica del testo, questioni linguistiche e archeologiche. Come mai non ci avete pensato? Forse chi v’ha costruito la scuola Gesù l’aveva un po’ in sospetto: troppo amico dei poveri e troppo poco amico della roba”.

Altro che presepio a scuola: don Milani voleva il Vangelo come programma di studio fondamentale in tutte le materie.

Ma – si dirà – per quanto considerato di sinistra lui era pur sempre un prete. Eppure anche Immanuel Kant, vate della cultura laica europea, affermava: “Il Vangelo è la fonte da cui è scaturita la nostra cultura”.

Un paio di aneddoti illuminanti.

AMARCORD

Attorno al 1978 frequentavo la Facoltà di Lettere e filosofia a Siena e seguivo in particolare i corsi di Critica letteraria tenuti da Franco Fortini. Era un professore straordinario, da cui ho imparato tantissimo. Un intellettuale affascinante.

Fortini stava fuori dagli schemi: era marxista, ma antistalinista, era ebreo (lui e suo padre subirono la persecuzione delle leggi razziali), ma critico con lo Stato d’Israele. Noi facevamo discussioni accesissime, furono scontri epici. Ma fecondissimi.

Una mattina iniziò la lezione leggendo (meravigliosamente) dei versi. In pochi riconoscemmo che era il “Mercoledì delle ceneri” di Eliot: “Perch’i’ non spero più di ritornare/ Perch’i’ non spero..”.

Quel giorno era appunto il Mercoledì delle ceneri e lui si mise a chiedere se sapevamo cosa significava. La maggior parte non ne sapeva niente. Così Fortini fece lezione per spiegarci che non era possibile studiare letteratura, filosofia, storia dell’arte o storia in Italia senza sapere tutto del cattolicesimo. Tanto più, disse, se uno si professa marxista.

Le stesse, identiche considerazioni poi mi furono fatte, qualche anno dopo, da Massimo Cacciari, quando lavoravo al “Sabato”, durante un’intervista. Cacciari, originariamente marxista, si occupa da sempre di teologia ed era inorridito dall’ignoranza in materia religiosa che riscontrava nei suoi studenti.                                                                                         E’ una questione centrale della formazione e la scuola non l’ha ancora compreso. Non è una questione confessionale, ma culturale e educativa.

PURE GLI ANTICLERICALI                                                                                                                                                

Ho già ricordato – su queste colonne – cos’hanno scritto in proposito i campioni della nostra cultura laica. Nella sua “Storia dell’idea d’Europa”, Federico Chabod dice:

il Cristianesimo ha modellato il nostro modo di sentire e di pensare in guisa incancellabile; e la diversità profonda che c’è fra noi e gli Antichi (…) è proprio dovuta a questo gran fatto, il maggior fatto senza dubbio della storia universale, cioè il verbo cristiano. Anche i cosiddetti ‘liberi pensatori’, anche gli‘anticlericali’ non possono sfuggire a questa sorte comune dello spirito europeo”.

E il papa laico, Benedetto Croce, il maestro della cultura liberale, nel saggio del 1942 “Perché non possiamo non dirci cristiani”, spiegava:

“Il Cristianesimo è stato la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuta (…). Tutte le altre rivoluzioni, tutte le maggiori scoperte che segnano epoche nella storia umana, non sostengono il suo confronto, parendo rispetto a lei particolari e limitate (…). E le rivoluzioni e le scoperte che seguirono nei tempi moderni (…) non si possono pensare senza la rivoluzione cristiana (…) perché l’impulso originario fu e perdura il suo”.

Ripeto: il problema della scuola italiana non è il presepio, ma l’ignoranza.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 6 dicembre 2015

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