Esattamente trent’anni fa, alle elezioni politiche del 27-28 marzo 1994, accadde un evento che avrebbe segnato la vita pubblica dei decenni successivi: la vittoria di Silvio Berlusconi che aveva appena fondato Forza Italia e aveva costruito – in tempi strettissimi – una coalizione di centrodestra (diversificata per territorio) prima inimmaginabile.

È ormai un avvenimento che appartiene alla storia. Si faranno studi e analisi sulle vicende di quegli anni, ma bisogna porsi anche una domanda di più largo respiro sui cambiamenti culturali che il “berlusconismo” politico comportò.

Il Cavaliere riuscì a fare una sintesi sorprendente delle varie culture dei partiti democratici che avevano governato e ricostruito l’Italia dal dopoguerra alla “svolta” di Tangentopoli.

Ma uno degli aspetti culturalmente più significativi e più dirompenti fu il tema comunismo/anticomunismo che Berlusconi adottò come pilastro della sua battaglia ideologica.

Può sembrare oggi anacronistico perché, proprio in quegli anni, era crollato tutto l’impero comunista dei Paesi dell’Est europeo. Ma in realtà quella del Cavaliere fu una scelta razionale e comprensibile per gli italiani che per decenni avevano relegato il Pci all’opposizione.

Infatti dalle inchieste della magistratura del 1992 erano usciti sostanzialmente annichiliti tutti i partiti democratici della prima repubblica che avevano ricostruito il Paese e, in quel marzo 1994, stava per vincere e andare al potere proprio quel Pci che – per il crollo del comunismo europeo – aveva appena cambiato nome.

Il Partito democratico della sinistra era sostanzialmente il vecchio Pci, con la stessa classe dirigente. Conservava addirittura il vecchio simbolo della falce e martello, con la sigla Pci, sotto il simbolo appena inventato della Quercia.

Il paradosso dunque non era tanto nella scelta di Berlusconi di fare dell’anticomunismo una bandiera, quanto nel fatto che un partito comunista, sconfitto nelle urne per 45 anni e sconfitto dalla storia, subito dopo il crollo del Muro potesse prendere il potere in un Paese occidentale importante come l’Italia.

Peraltro Berlusconi aveva fondate ragioni di ritenere il cambio di nome del vecchio Pci un trasformismo opportunistico perché – sosteneva – nulla era cambiato a sinistra nei metodi politici, che restavano caratterizzati da settarismo, demonizzazione dell’avversario e soffocante egemonia sulla società.

Inoltre lo psicodramma, a sinistra, del cambio del nome non aveva comportato – né allora né dopo – una revisione seria che recidesse definitivamente il cordone ombelicale che legava (e lega) la classe dirigente della sinistra al Pci di Togliatti e Berlinguer e ai miti di quella storia. Infatti non sono mai diventati anticomunisti.

Così Berlusconi adottò come sua bandiera ideologica il Libro nero del comunismo, che era uscito in Francia nel 1997 e che fu tradotto l’anno successivo dalla Mondadori in Italia. Questo volume, scritto da un gruppo di storici francesi che per la prima volta tentavano di tracciare la “contabilità” dell’immane strage perpetrata dai regimi comunisti, a tutte le latitudini, fu una sorta di cartina al tornasole.

Da sinistra infatti fu molto attaccato e anche questo fornì a Berlusconi la conferma che non volevano guardare in faccia, rinnegare e condannare il proprio passato, ma solo evitare di parlarne. Un’amnesia generale.

Jacques Amalric commentò: “Questo libro rompe lo strano mutismo che affliggeva gran parte degli storici”. È cambiato poco.

 

Antonio Socci

 

Da Libero, 30 marzo 2024

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