“Il cristianesimo insieme rigoristico e paganeggiante di Lippi si impadronisce anche delle parole del socialismo” scriveva nel 1982 Alfonso Berardinelli nella prefazione a “Nuovi poeti italiani 2” (Einaudi), parlando delle liriche – selezionate in quel volume – del senese Massimo Lippi, scultore e pittore, oltreché poeta. Ma, quando c’è, quell’appropriazione è polemica, anticonformista.

SOSTIENE FORTINI

“Troppo originarie, troppo manifestamente mosse da una necessità quasi fisica, da un gorgoglio costretto a una tumultuosa via d’uscita, queste composizioni vanno prese, credo, molto sul serio… Non si legge di frequente, ai nostri anni, una poesia che ponga alle proprie radici una affermazione e un diniego, un sì e un no, così espliciti. In altri decenni, si sarebbe parlato di poesia ‘impegnata’”.

Così scriveva Franco Fortini nella prefazione del 1991 alla raccolta di Lippi, “Non popolo mio” (Scheiwiller). Ma il suo è impegno esistenziale, spirituale. Infatti lo stesso Fortini notava che Lippi “somiglia a non pochi dissidenti anticomunisti dell’Urss” e la sua “è una poesia vicina a Tarkovskij, a certe immagini poderose di Rublëv, Stalker, Lo specchio.

Uno dei suoi “vortici caotici” – secondo il critico – “esprime un grado di furore estatico, cui si debbono le impressionanti vette della sua poesia, fra le più sorprendenti che sia dato leggere ai nostri anni”.

Il forte aggancio di Lippi al vernacolo senese e al mondo contadinocontiene un’operazione colta (Fortini dice “ipercolta, come ogni ‘brutalismo’ o ‘arte povera’”). Lo si vede nei suoi arcaismi. E nella sua passione che ricorda le lettere di santa Caterina.

Questa scelta linguistica riproduce il paesaggio senese, fisico e spirituale, e lo stesso paesaggio interiore del poeta che, seppur drammatico, è sempre illuminato dalla pietà e dalla luce dell’ultimo giorno, quando tutto sarà ritrovato nella sua verità.

LA FINE E L’INIZIO

Nel finale di “Requiem aeternam”, poesia dedicata alla madre, si legge:

 

“Dove sarà Rita di Graziano?

sarà mai giorno un poco

anche per lei

nell’eremo del giorno e de la notte?

avrà Pace? E il Giorno ingesuato

avrà sì chiare stelle?

Dove, ditemi, dove, miei cari

in quale piaga di Cristo

ora vi nascondete? andrò da solo ad aspettarvi

in cima a’ poggi

sopra le terre colte del lamone”.

 

Del resto questa sua raccolta s’intitola “Passi il mondo e venga la grazia” (Scheiwiller). La poesia che dedica a Jacopo della Quercia, “Porta Giustizia”, ha questo commento del poeta: “Siena, ottobre 1986. Contemplando la chiesa di S. Agostino dove Iacopo de la Fonte, dal comune avello, attende lo stampo del Vero, lo squillo del Risorto. L’intaglio del suo nuovo corpo, del suo arcano fiore”.

Anche un semplice temporale in campagna richiama “il Giorno del Giudizio” e già “la bufera di bùbboli secchi/ risciacqua le fibre/ rigenera il mondo”.

In “Verrà dopo il Nulla”, della raccolta “Exilium” (Cantagalli), rappresenta l’istante della Fine e dell’Inizio escatologico:

 

“Verrà al mondo come un sonno

un lieve torpore e macilento…

Le Nazioni cadranno nel baratro di foco…

Quel giorno morirà la morte del suo Male

morirà il sole

come un ucellino a la tagliola.

Risorgeranno i morti intatta aiola…

Verranno a solatia di ramo in ramo

le famiglie dei popoli

nel crescere potente d’ogni creatura

fulgenti schiere dell’Agnello immacolato.

Morrà il dolore e’ patimenti

nova misura de’ viventi sarà la gioia

che viene a capriole sul manto fiorito dell’Amore”.

 

Un poeta per i nostri giorni. Un lampo nella notte.

 

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 29 ottobre 2022